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Si fa presto a dire Mens Sana

Tante storie dietro uno scudetto vinto da outsider dopo stagioni di dominio assoluto

di Umberto De Santis

SIENA. “Il potere logora chi non ce l’ha”. La massima andreottiana sembra suggellare la parabola mensanina che ha portato al settimo scudetto consecutivo, partendo da una situazione ambientale, tecnica, mediatica negativa per il successo finale che ben pochi potevano immaginare a inizio stagione. Partiamo dal pubblico locale, che si voleva quasi annoiato da tanto straripante potere degli anni precedenti. Al momento del dunque, quando la lotta è sembrata un gioco di nervi scoperti e di fedeltà atavica alla bandiera, si è ricompattato alla classica maniera italiana, quella del “noi contro tutti”. Tanto da far dire a coach Banchi: “E’ stata una annata faticosa con 78 partite ufficiali e 19 incontri di playoff in 40 giorni a distanza di 48 ore uno dall’altro, che abbiamo sopportato anche perché i tifosi erano come impazziti e riempivano il palasport a ogni occasione”.

La compattezza del gruppo e una società sempre presente. Cominciamo dal fondo, dove appare un Rasic ben consapevole fin dal primo giorno del suo ruolo marginale: sempre presente, mai una polemica. Dettaglio fondamentale per un gruppo che ha dovuto subire menomazioni causa tagli e infortuni a catena, che sembrano un tratto distintivo del basket moderno: i problemi li hanno avuti anche altri, pensiamo a Cantù senza Markoishvili da un giorno all’altro, ma senza dubbio la Mens Sana li ha sopportati meglio di altri. Con il contorno di una città che ti lascia concentrare solo sulla pallacanestro, se vuoi, e copre le marachelle dei giocatori più estroversi. Ma non è sufficiente se quando le stelle della squadra (Brown, Hackett, Moss o Ress ma anche un instancabile Kangur) hanno una battuta a vuoto non emergono comprimari in grado di diventare eroi di giornata che si chiamino Sanikidze o Janning o Eze. Poi c’è il capitano, Marco Carraretto, ma è una storia che va al di là delle semplici storie di sport, come quelle di Dino Meneghin e Riccardo Pittis, che con lui detengono il record di scudetti vinti nell’era playoff.

Lo sponsor al contrario. Generalmente lo sponsor cerca le vittorie per massimizzare al massimo l’immagine positiva che riflettono. Montepaschi, con le sue note vicende giudiziarie e finanziarie, è rimasto distaccato, quasi infastidito tanto da non festeggiare in alcun modo la vittoria in Coppa Italia. E di ricevere la squadra, senza pompa magna e can can mediatico dopo il trionfo di gara5, quasi per puro atto di cortesia. Gli altri quindici sponsor della Legabasket avrebbero fatto faville di fronte a certi risultati, e anche Armani non ha rinunciato alla pubblicità con la squadra di figurini nell’ultima pagina dei quotidiani. Misteri del marketing aziendale contemporaneo, costretto a rimbalzare tra licenziamenti dei dipendenti e ingaggi milionari di guardie e di pivot, e fughe borsistiche da far temere improvvisi fallimenti (compreso quello calcistico della Robur Siena che potrebbe arrivare in questi giorni, e ben più costoso). Non è stato facile nemmeno scrivere di basket in questa città, con la paura di apparire servi del sistema, epigoni del panem et circenses, elucubratori di facili funerali sportivi.

Che sarebbe stata una stagione difficile si capì al primo allenamento di Mario Kasun con i giovani dell’Under 19 che gli saltavano letteralmente sopra la testa. “S’ha da anda’ bene” disse qualcuno che di bidoni, negli anni, ne aveva visti parecchi targati Cx o Mister Day. Perché il background cestistico senese viene da lontano, senza scomodare la facile retorica della Ida Noemi Pesciolini e del 1907. Tanto grande da rendere insopportabile un arbitro che sorvola sui passi di partenza di qualche acclamato giocatore privo però dei necessari fondamentali. Tanto da non voler accettare questa stupida regola sull’antisportivo, che andrà cambiata perché così è solo fonte di discussione infinita: il sondaggio empirico è nostro, ma al Palaestra sappiamo di avere il consenso di quasi tutti. E se davanti a un insulto gli avversari si arrabbiano, allora si che a Siena si grida più forte; e se di conseguenza giocano male allora si che si insulta più forte. E’ lo spirito toscano: anche a Firenze sarebbe lo stesso, e a fine partita senza rancore, amici come prima. Non tema Alessandro Gentile: se un giorno gli dovesse capitare di giocare con la maglia bianco verde diventerebbe un beniamino come Daniel Hackett, che i personaggi di carattere piacciono tanto da queste parti.   

Sergio Scariolo aveva fatto intendere di un mondo asservito alla Mens Sana come mai nella storia sportiva italiana. Roba da far sembrare un’educanda perfino Luciano Moggi. Ma i valori nel basket sono diversi dal calcio e a posteriori, specie dopo la vittoria di quest’anno ottenuta a prezzi di fatica indicibili, si riesce a comprendere come la Mens Sana di Pianigiani fosse squadra di un altro pianeta e che se fai un canestro in più dell’avversario non c’è arbitro che ti possa negare la vittoria. L’unico risultato concreto è che la stagione dei veleni ha favorito proprio la Montepaschi: sulle crisi di nervi degli avversari nel rapporto con le giacchette grigie si è fondata una buona fetta di vittoria senese, come il futile motivo che ha messo Calvani fuori dai giochi in appena 10’ di finale in gara5 ha ampiamente dimostrato; il potere logora chi non ce l’ha, appunto.

Luigi Lamonica sarà contento. Essendo stato tacciato da tutte le tifoserie di parteggiare per la squadra avversaria di turno, può tenersi stretto il suo titolo di principe degli arbitri europei. Non piace il suo fare quasi caricaturale della gestualità arbitrale e l’eccesso di leadership come se gli altri due signori sul parquet fossero valletti muti, ma certo rivedendo a freddo le partite in televisione, tante volte le sue impressioni (anche quelle dei vari Chiari, Cerebuch, ecc) sono risultate giuste. Ma non ci toglie l’idea, caro Lamonica, che quella palla tra le mani di Ortner a rimbalzo sia stata schiaffeggiata da Talts in gara6. E che l’instant replaylei lo abbia guardato con troppa sufficienza per due volte, perché è umanamente impossibile ricevere un pallone e tirarlo a canestro girandosi in 62 centesimi di secondo, se il cronometro non parte in ritardo. Ma è meglio così, nessuno potrà dire che il regalo l’ha avuto Siena.

Ultima quaestio, una riforma della giustizia sportiva urge. Non tanto per aver trasformato in barzelletta la squalifica di Brown e Hackett prima, quella di Toti poi. Quanto per aver cercato di giustificare la mancata squalifica di Langford con accuse di razzismo verso il pubblico locale. I tifosi di Tolbert, McIntyre, McCalebb, razzisti “de che?”. Ora ogni mensanino che legge queste righe rispolvererà il suo beniamino di “colore” cominciando da Alphonso Ford e finendo a Ron Behagen. E’ finito il tempo delle scuse puerili, è finito il tempo dei dilettanti allo sbaraglio e il presidente Petrucci dovrebbe essersi reso conto della situazione dentro il sistema. 

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