CHIUSI. Due mesi lontano dal campo, praticamente un girone intero, il rientro e il nuovo infortunio a Nardò. Poi finalmente la continuità tanto mancata. Un finale di 2023 complicato per Gabriele Stefanini, l’U.F.O. della preseason e uno dei più grandi ‘what if’ (per dirla alla sua maniera) della stagione per la San Giobbe. Due partite e il quintetto ritrovato per chiudere l’anno solare e affacciarsi nel migliore dei modi possibili al 2024. Gabe si racconta, dal momento personale e dei Bulls, passando dall’esperienza negli States.
“Mi sento molto bene, fisicamente ho recuperato al 100%. Ho passato un paio di mesi molto lunghi e molto difficili. La squadra non stava andando bene e io non potevo essere di aiuto. Ho sofferto molto ma adesso sono pronto e molto carico. Voglio fortemente il riscatto a livello di squadra e dal punto di vista personale in questa fine di prima fase e poi per la fase ad orologio”.
Che contributo pensi di poter portare alla squadra? “A parte un aiuto sia offensivo che difensivo in campo, penso di poter contribuire dal punto di vista morale. Stiamo recuperando qualche altro infortunato e siamo vicini ad essere al completo. Quello che ci è mancato maggiormente è la consapevolezza di essere tutti a disposizione. Abbiamo avuto poca continuità in campo e negli allenamenti. Piano piano stiamo recuperando i pezzi e dal punto di vista morale è un grande aiuto. Anche in settimana c’è un umore diverso. Non siamo ancora morti, siamo pronti a combattere e pronti a far vedere che non è finita”.
Mancano ancora alcune partite della prima fase, poi tutta la seconda. A tuo parere cosa dovrà fare la San Giobbe per uscire da questa situazione? “Dobbiamo rimanere costanti nelle nostre regole, soprattutto a livello difensivo. La nostra forza, dall’inizio dell’anno, è stata la difesa e lo abbiamo dimostrato in diverse occasioni. Sicuramente nelle ultime giornate abbiamo fatto un po’ di fatica nella nostra metà campo, ma sono convinto che una volta ritrovata la coesione difensiva, in attacco potremo trovare soluzioni più facili e con meno pressione. Noi dobbiamo essere consapevoli di cosa possiamo fare e giocare a favore della nostra forza. Dobbiamo stare uniti e non perdere mai fiducia e speranza. So di cosa siamo capaci e sono convinto che, andando tutti nella stessa direzione, potremo uscire da questa situazione”.
Un lungo percorso negli States. Cosa ti sei portato dietro di quella esperienza una volta tornato in Italia? “Negli Stati Uniti ho imparato molte cose, ma soprattutto la cultura del lavoro. Lì, dalla mattina alla sera, devi dimostrare che appartieni ad un gruppo di persone; se non lo fai la borsa di studio la danno a qualcun altro, i minuti in campo li danno a qualcun altro. Quindi più che altro la mentalità, avere davanti costantemente il proprio obiettivo. Poi ovviamente l’energia, la voglia e l’entusiasmo che mettono in ogni allenamento. Ma, soprattutto al College, contesto in cui appartieni ad un qualcosa di più grande, i tuoi compagni diventano davvero una seconda famiglia. Questo è quello che stiamo facendo alla San Giobbe. Siamo un gruppo molto unito, andiamo tutti d’accordo e non ci sono gelosie, stiamo proprio bene insieme. Non è facile trovare un gruppo del genere, coeso fin da subito. Peccato non essere riusciti a convertire tutto ciò in risultati sul campo”.
Quali sono le differenze sostanziali tra Italia e Stati Uniti dal punto di vista cestistico? “A parte a livello tecnico e tattico, perché negli States di tattica si fa meno, il lavoro sui fondamentali e sull’individuo sono molto più ricercati. Ho passato degli anni ad allenarmi con gente che gioca in NBA; sono occasioni di grande crescita e di grande miglioramento. Capisci che devi avere una certa mentalità e un tipo di approccio diverso da quello di una persona normale. Probabilmente ci sono meno pressioni da parte della scuola perché alla fine sei uno studente. L’unica pressione che hai è quella di bilanciare scuola e basket. Non è semplice, ma è tutta una questione di mentalità. Io, fortunatamente, ho da sempre avuto una buona cultura da questo punto di vista. Da piccolo, mio padre, mi portava ogni giorno agli allenamenti a Reggio Emilia. Magari avevo due-tre sessioni, lui mi aspettava e poi una volta rientrati a casa alla sera dovevo mettermi a studiare. E ogni giorno avevo questa routine. A livello mentale è stata una bella preparazione per andare negli Stati Uniti e infatti mi sono trovato molto bene fin da dubito, tutti hanno apprezzato la mia voglia di fare”.
Che tipo di persona è Gabriele fuori dal campo? “Sono una persona abbastanza solare e positiva. Poche volte mi capita di essere giù di morale. Ma sono anche un ragazzo molto emotivo e sento molto le sconfitte e le vittorie. Il basket è la mia vita e lo è sempre stato. Al di fuori del campo sono un ragazzo abbastanza normale, mi piace uscire con gli amici, giocare alla playstation, sento spesso la mia famiglia al telefono. Durante l’anno cerco di stare il più concentrato possibile ma non mi privo della vita sociale”.