di Enrico Campana
SIENA. Squadra e pubblico in subbuglio, coach sulla graticola, società in una fase strana, fra apatia e disimpegno. I soliti segni di debolezza che hanno minato progetti, investimenti, speranze, personaggi di spessore, anche in senso futuristico, come Brandon Jennings, e concesso ampie responsabilità a chi non porta progresso, chiarezza. Ma forse ha intravisto quel che si dice “una bella vacanza romana”, o una comoda cuccia. Personaggi giubilati nel frattempo sono rientrati – non si sa in quale ruolo – nel giro.
Il quotidiano “Il Tempo “ va giù duro. “Tanti troppi personaggi a vario titolo gravitano attorno a Toti (Claudio, il presidente che è anche azionista di peso della Sandedoni, nda), cercando di dispensare il loro approssimativo sapere cestistico”. Gli fa eco “Il Romanista” con un ‘analisi che si basa sui comportamenti dei giocatori, punta il dito sull’inesperienza di Gentile (“non andava confermato, come si è visto dal risultato del campionato mentre le Top 16 erano frutto del lavoro di Repesa”) e suggerisce, dopo quasi due lustri, un azzeramento e la scelta di un personaggio competente a capo della struttura.
Opinioni rispettabili, non tutte condivisibili, diciamo che in questo club ci sono responsabilità oggettive che alimentano peccati individuali. E che con interventi tardivi allargano anche le piccole crisi a macchia d’olio, fino allo sbracamento. Solo così si spiega perché una squadra nata per l’alta classifica abbia perso 6 gare di fila fra campionato ed Eurolega, e adesso non sia più chiaro dove mettere le mani, “tutti colpevoli, nessun colpevole”. Ma c’è sempre la soluzione più semplice, secondo il costume italico (e calcistico): licenziare l’allenatore.
La passione e la pazienza di Claudio Toti sono da ammirare fino alla tenerezza. Questa estate è stato fotografato mentre si allenava con la squadra. Voleva davvero tirare il gruppo, o far capire che si sentiva uno di loro?. Uno scatto emblematico che forse appalesa confusione di ruoli. Il presidente venuto dal calcetto col suo paternalismo positivo alla fine diventa un boomerang. Forse è meglio un pragmatismo di tipo “porelliano”, che per certi versi è alla radice di parte dei successi senesi, di una gestione “carota e bastoncino” (di zuccxhero filato…).
La progettualità, poi, deve essere mantenuta nelle linee essenziali, mica si può sposare la via slava e al primo contraccolpo mandare via tutti e passare alla “linea tricolore”. Che, sia chiaro, a mio avviso è commendevole, solo che deve partire dalle fondamenta, e su quello lavorare credendoci e con competenza.
Mi ricordo che quando Dean Bodiroga decise di lasciare il parquet, scrissi che era stato un errore da parte di Roma aver rinunciato al faro del gioco per puntare su un dirigente in erba, senza esperienza specifica. Mica per criticarli, solo che mi sembrava inconcepibile una mossa del genere. Dov’è adesso Bodiroga?. Mmm..Mi risposero che era un investimento per l’Eurolega, competizione alla quale la società teneva moltissimo. Aappiamo come è andata a finire, degli slavi nemmeno più l’ombra. E l’ingaggio di Brandon Jenning, presentato come il Grande fenomeno? A Roma quel fenomeno non è apparso quasi mai, scelto dalla NBA ha fatto 50 punti in una volta sola con la maglia di Milwaukee. E allora, come la mettiamo, è colpa del ponentino, della Lupa “meretrice”?
Ho girato col taccuino su alcuni campi prima dell’inizio del campionato per vedere un po’ di basket e ascoltare il parere degli esperti, e alla domanda “chi sarà la squadra delusione?” tutti rispondevano Roma. Speravo sbagliassero, io non mi sono mai unito al coro perché Roma mi fa tenerezza nella sua ingenuità. Lì "tengo amici" e conosco figure importanti che ci mettono tanta passione e meriterebbero di più anche se magari ogni tanto forse non possono fare orecchie da mercante alla raccomandazione. Perché in Italia le cose vanno così. Questa sfiducia verso Roma la sapevano tutti, tranne che gli interessati e non è certo colpa della debolezza del progetto di RomAzzurra, dell’inaffibilità degli italiani “che sono il tendaggio del capitano”, come suole affermare il patron della Virtus. Via via, si è sviluppata una catena di equivoci, come ad esempio che Jaaber si potesse scegliere il ruolo più consono a sfogare la sua grande energia facendo anche il play. O che Hutton a 30 anni potesse diventare un leader carismatico in virtù di un biennale sulla fiducia. Che Delafuente fosse un lusso, e poi una necessità. Che Giachetti potesse essere il secondo play e poi il terzo, e così via. C’era il Poeta di Teramo in circolazione, un giocatore ricco di motivazioni personali, il costo dell’operazione, d’accordo, era alto. Ok, facciamo con quel che passa il convento, poi in quel ruolo arriva a stagione in corso un play atipico come Vitali. Certo un prospetto interessante ma che, operazione di tonsille a parte, si è portato da Milano un bagaglio di frustrazioni. Ci sono scusanti, come gli infortuni, ma le grandi squadre e i grandi campioni si vedono sotto stress, in situazioni di emergenza, e adesso dalla società si leva a mezza voce un ambiguo “qualcosa va fatto” che sa di proprietà transitiva. E cioè trasferire sul più debole della catena le proprie responsabilità.
Mi auguro di essere sconfessato come una Cassandra con le pile scariche, ma questo parlarsi a distanza e sottovoce non è il modo migliore per riaggiustare un progetto innovativo e anche, come di dice, “pilota” per tutti il basket, anche se il calendario potrebbe dare una mano ai romani.
E’ certo che oggi Roma ha vinto sole 3 gare su 9 in campionato, è quart’ultima, deve mettere le gambe in spalla per entrare fra le 8 di Coppa Italia, e sta perdendo terreno e credito in Eurolega dov’era partita benissimo con le vittorie di Atene e Mosca. L’asse americano che doveva portarla in alto, puntellato anche da Ricky Minard, altro journeyman mai stato protagonista, si è messa sull’Aventino. E per fortuna Kennedy Winston non ha deluso, è stato l’unico a non tirarsi indietro. Jaaber è stato chiaro quando su Internet è apparso il suo pensiero: “Una volta che i giocatori impareranno a sacrificarsi potremo pensare di diventare una grande squadra”. Era una dichiarazione che voleva sollecitare l’orgoglio, è stata interpretata forse come una dichiarazione di guerra, ed ecco il risultato. Squadra spaccata.
Messaggio non recepito, come tanti altri. Anche da parte della critica. Per primo quello lanciato da Gentile, il quale un anno fa non voleva sedersi sulla panchina di Jasmin Repesa. Un bel discorso etico, ma anche di ammissione di inesperienza. E non si capisce perché la società si sia ritenuta soddisfatta da quel quadretto da libro Cuore e non abbia adeguatamente rafforzato il management, a corto di esperienza e risultati, per creare una dialettica produttiva con coach e squadra. Magari sarebbe stata utile per affiancare a Gentile un coach d’esperienza un maestro per il lavoro individuale. Come Zorzi, Blasone o lo stesso Bianchini che ha dato a Roma l’ultimo lo scudetto e la prima e unica Coppa dei Campioni e abita proprio sul colle di fronte al Palazzetto.
Più che della presidenza onoraria di Veltron alla Lega, con tutto il rispetto per l’onorevole e la sua fede cestistica, a Roma serve un uomo forte, un manager, un allenatore se c’è, un demiurgo se occorre. E tanta umiltà, chiarezza, senso di responsabilità sapendo che “troppo cuochi rovinano la minestra”.
Roma è troppo strategica per il basket, specie in questo momento e i boom del basket sono stati scanditi dall’Eur pieno di folla dai tempi degli spareggi Simmenthal-Ignis fino ai 4 milioni di telespettatori in prime time nel ’91, quando Carlo Sama e il Gruppo Ferruzzi regalarono alla capitale l’illusione di un prossimo ingresso nella NBA.
SIENA. Squadra e pubblico in subbuglio, coach sulla graticola, società in una fase strana, fra apatia e disimpegno. I soliti segni di debolezza che hanno minato progetti, investimenti, speranze, personaggi di spessore, anche in senso futuristico, come Brandon Jennings, e concesso ampie responsabilità a chi non porta progresso, chiarezza. Ma forse ha intravisto quel che si dice “una bella vacanza romana”, o una comoda cuccia. Personaggi giubilati nel frattempo sono rientrati – non si sa in quale ruolo – nel giro.
Il quotidiano “Il Tempo “ va giù duro. “Tanti troppi personaggi a vario titolo gravitano attorno a Toti (Claudio, il presidente che è anche azionista di peso della Sandedoni, nda), cercando di dispensare il loro approssimativo sapere cestistico”. Gli fa eco “Il Romanista” con un ‘analisi che si basa sui comportamenti dei giocatori, punta il dito sull’inesperienza di Gentile (“non andava confermato, come si è visto dal risultato del campionato mentre le Top 16 erano frutto del lavoro di Repesa”) e suggerisce, dopo quasi due lustri, un azzeramento e la scelta di un personaggio competente a capo della struttura.
Opinioni rispettabili, non tutte condivisibili, diciamo che in questo club ci sono responsabilità oggettive che alimentano peccati individuali. E che con interventi tardivi allargano anche le piccole crisi a macchia d’olio, fino allo sbracamento. Solo così si spiega perché una squadra nata per l’alta classifica abbia perso 6 gare di fila fra campionato ed Eurolega, e adesso non sia più chiaro dove mettere le mani, “tutti colpevoli, nessun colpevole”. Ma c’è sempre la soluzione più semplice, secondo il costume italico (e calcistico): licenziare l’allenatore.
La passione e la pazienza di Claudio Toti sono da ammirare fino alla tenerezza. Questa estate è stato fotografato mentre si allenava con la squadra. Voleva davvero tirare il gruppo, o far capire che si sentiva uno di loro?. Uno scatto emblematico che forse appalesa confusione di ruoli. Il presidente venuto dal calcetto col suo paternalismo positivo alla fine diventa un boomerang. Forse è meglio un pragmatismo di tipo “porelliano”, che per certi versi è alla radice di parte dei successi senesi, di una gestione “carota e bastoncino” (di zuccxhero filato…).
La progettualità, poi, deve essere mantenuta nelle linee essenziali, mica si può sposare la via slava e al primo contraccolpo mandare via tutti e passare alla “linea tricolore”. Che, sia chiaro, a mio avviso è commendevole, solo che deve partire dalle fondamenta, e su quello lavorare credendoci e con competenza.
Mi ricordo che quando Dean Bodiroga decise di lasciare il parquet, scrissi che era stato un errore da parte di Roma aver rinunciato al faro del gioco per puntare su un dirigente in erba, senza esperienza specifica. Mica per criticarli, solo che mi sembrava inconcepibile una mossa del genere. Dov’è adesso Bodiroga?. Mmm..Mi risposero che era un investimento per l’Eurolega, competizione alla quale la società teneva moltissimo. Aappiamo come è andata a finire, degli slavi nemmeno più l’ombra. E l’ingaggio di Brandon Jenning, presentato come il Grande fenomeno? A Roma quel fenomeno non è apparso quasi mai, scelto dalla NBA ha fatto 50 punti in una volta sola con la maglia di Milwaukee. E allora, come la mettiamo, è colpa del ponentino, della Lupa “meretrice”?
Ho girato col taccuino su alcuni campi prima dell’inizio del campionato per vedere un po’ di basket e ascoltare il parere degli esperti, e alla domanda “chi sarà la squadra delusione?” tutti rispondevano Roma. Speravo sbagliassero, io non mi sono mai unito al coro perché Roma mi fa tenerezza nella sua ingenuità. Lì "tengo amici" e conosco figure importanti che ci mettono tanta passione e meriterebbero di più anche se magari ogni tanto forse non possono fare orecchie da mercante alla raccomandazione. Perché in Italia le cose vanno così. Questa sfiducia verso Roma la sapevano tutti, tranne che gli interessati e non è certo colpa della debolezza del progetto di RomAzzurra, dell’inaffibilità degli italiani “che sono il tendaggio del capitano”, come suole affermare il patron della Virtus. Via via, si è sviluppata una catena di equivoci, come ad esempio che Jaaber si potesse scegliere il ruolo più consono a sfogare la sua grande energia facendo anche il play. O che Hutton a 30 anni potesse diventare un leader carismatico in virtù di un biennale sulla fiducia. Che Delafuente fosse un lusso, e poi una necessità. Che Giachetti potesse essere il secondo play e poi il terzo, e così via. C’era il Poeta di Teramo in circolazione, un giocatore ricco di motivazioni personali, il costo dell’operazione, d’accordo, era alto. Ok, facciamo con quel che passa il convento, poi in quel ruolo arriva a stagione in corso un play atipico come Vitali. Certo un prospetto interessante ma che, operazione di tonsille a parte, si è portato da Milano un bagaglio di frustrazioni. Ci sono scusanti, come gli infortuni, ma le grandi squadre e i grandi campioni si vedono sotto stress, in situazioni di emergenza, e adesso dalla società si leva a mezza voce un ambiguo “qualcosa va fatto” che sa di proprietà transitiva. E cioè trasferire sul più debole della catena le proprie responsabilità.
Mi auguro di essere sconfessato come una Cassandra con le pile scariche, ma questo parlarsi a distanza e sottovoce non è il modo migliore per riaggiustare un progetto innovativo e anche, come di dice, “pilota” per tutti il basket, anche se il calendario potrebbe dare una mano ai romani.
E’ certo che oggi Roma ha vinto sole 3 gare su 9 in campionato, è quart’ultima, deve mettere le gambe in spalla per entrare fra le 8 di Coppa Italia, e sta perdendo terreno e credito in Eurolega dov’era partita benissimo con le vittorie di Atene e Mosca. L’asse americano che doveva portarla in alto, puntellato anche da Ricky Minard, altro journeyman mai stato protagonista, si è messa sull’Aventino. E per fortuna Kennedy Winston non ha deluso, è stato l’unico a non tirarsi indietro. Jaaber è stato chiaro quando su Internet è apparso il suo pensiero: “Una volta che i giocatori impareranno a sacrificarsi potremo pensare di diventare una grande squadra”. Era una dichiarazione che voleva sollecitare l’orgoglio, è stata interpretata forse come una dichiarazione di guerra, ed ecco il risultato. Squadra spaccata.
Messaggio non recepito, come tanti altri. Anche da parte della critica. Per primo quello lanciato da Gentile, il quale un anno fa non voleva sedersi sulla panchina di Jasmin Repesa. Un bel discorso etico, ma anche di ammissione di inesperienza. E non si capisce perché la società si sia ritenuta soddisfatta da quel quadretto da libro Cuore e non abbia adeguatamente rafforzato il management, a corto di esperienza e risultati, per creare una dialettica produttiva con coach e squadra. Magari sarebbe stata utile per affiancare a Gentile un coach d’esperienza un maestro per il lavoro individuale. Come Zorzi, Blasone o lo stesso Bianchini che ha dato a Roma l’ultimo lo scudetto e la prima e unica Coppa dei Campioni e abita proprio sul colle di fronte al Palazzetto.
Più che della presidenza onoraria di Veltron alla Lega, con tutto il rispetto per l’onorevole e la sua fede cestistica, a Roma serve un uomo forte, un manager, un allenatore se c’è, un demiurgo se occorre. E tanta umiltà, chiarezza, senso di responsabilità sapendo che “troppo cuochi rovinano la minestra”.
Roma è troppo strategica per il basket, specie in questo momento e i boom del basket sono stati scanditi dall’Eur pieno di folla dai tempi degli spareggi Simmenthal-Ignis fino ai 4 milioni di telespettatori in prime time nel ’91, quando Carlo Sama e il Gruppo Ferruzzi regalarono alla capitale l’illusione di un prossimo ingresso nella NBA.
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A distanza di sole 24 ore, in ogni caso, dopo l'ennesima partita disgraziata e un'antipatica contestazione realizzata con tanto di piccoli cartelli ben stampati sui quali c'era scritto "Gentile vattene" e che facevano capire ad un'azione organizzata, il coach si è dimesso. Un gesto di stile e non di stizza, se vogliamo un atto d'amore. Già s'intravvedono all'orizzonte frotte di avvoltoi richiamati dalla prospettiva di un asto che stavolta non sarà luculliamo offrendo il presidente un contratto co.co.co di soli 6 mesi, prendere o lasciare. E dopo?
A distanza di sole 24 ore, in ogni caso, dopo l'ennesima partita disgraziata e un'antipatica contestazione realizzata con tanto di piccoli cartelli ben stampati sui quali c'era scritto "Gentile vattene" e che facevano capire ad un'azione organizzata, il coach si è dimesso. Un gesto di stile e non di stizza, se vogliamo un atto d'amore. Già s'intravvedono all'orizzonte frotte di avvoltoi richiamati dalla prospettiva di un asto che stavolta non sarà luculliamo offrendo il presidente un contratto co.co.co di soli 6 mesi, prendere o lasciare. E dopo?