di Enrico Campana
SIENA. Cui prodest?. Semplifico la locuzione di Seneca non per descrivere “il misfatto che reca vantaggio solo a se stesso”. Non sono un tribuno deputato a riportare “il grido di dolore” collettivo ma come giornalista e uomo della strada mi chiedo quale sia l’utilità di un successo – i trionfi sono un’altra cosa, hanno un contenuto epico e morale – così schiacciante accompagnato in Tv e sui giornali da una serie di commenti riassumibili in aggettivi che tralascio. E purtroppo non certo riconducibili a un concetto di “simpatia generale” che dovrebbe suscitare l’esito di una competizione sportiva equilibrata. E me ne dispaccio, e non solo perché sono sempre stato dalla parte dei più deboli (e la Mens Sana lo sa bene…), ma per questi corazzati giocatori – davvero eccezionali – il gioco di Simone Pianigiani, davvero esplosivo, in grado di coinvolgere emotivamente tutta la sua truppa e declinare l’ego individuale con il traguardo comune. Gioco, ripeto, autentico elemento primario di marketing. E naturalmente complimenti anche il management, al neo-presidente (o “presidetutto”, concedetemi questo neologismo che non è una battutina) del quale, lo sanno tutti (lui per primo), intravedevo la potenzialità del selfmademan berlusconiano quando ancora vendeva spazi pubblicitari alla Mens Sana. Verso la metà degli anni 90 scrissi infatti che “un giorno il basket dovrà fare i conti con lui”, come riportò in un suo articolo il buon collega Renzo Corsi passato – come tanti altri – al tipico scetticismo senese per il nuovo alle mie tesi su quello che ormai è diventato un personaggio pubblico.
In fondo, a vedere l’Armani fatta a pezzettini e costretta al cappotto (termine quanto mai spregioso per la squadra del re degli stilisti, di cui parlerò nella mia prossima puntata), la nemesi ha fatto il suo paziente lavoro. Avverto infatti la stessa “rabbia” di 40 anni fa, quando il Simmenthal, la società che non perdeva mai, andava a casa di Pino Brumatti a Gorizia e con 30 palloni si portava a casa il prezioso cartellino. Oggi le cifre sono diverse, lo sport è sempre più plutocrazia strisciante sotto altre forme, vale a dire con molti zeri in più. E non voglio essere il portavoce di chi non può lanciare la prima pietra – parlo dello sdegno del signor Gilberto Benetton – per le “spese esagerate” che si riflettono sugli azionisti della banca senese (io sono fra questi, e la mia preoccupazione non riguarda la spesa, per un budget che ha raggiunto la cifra-record di quasi 17 milioni, ma di altre cose) e che con un sussulto inusitato la Lega basket ha pubblicato sul suo sito.
Non è colpa della Mens Sana se il sistema accetta queste dittature, che purtroppo vengono metabolizzate all’italiana, con malcelati rancori, antipatie e accuse nei confronti di chi vincendo in fondo sta facendo al meglio il proprio lavoro. Questo basket avventuristico è gestito da clan l’un contro l’altro armati, e lo dimostra proprio il tourbillon alla guida della Lega, espressione ogni volta di un potentato e di una logica. E costi quel che costi (alludo a certi stipendi che fanno arrossire in tempi di crisi anche quelli di grandi manager…).
Nel mio piccolo, io cerco di esprimere un “libero pensiero” in maniera documentata e utile a una discussione produttiva, non ho la presunzione di voler anticipare – e scavalcare – i tempi di una realtà storica. Parto da una realtà oggettiva-soggettiva, il caso Siena. Il caso come fatto in sé, e non come “pietra dello scandalo” fino a prova contraria, perché non credo che i signori che da un decennio sono stati intronati nei prestigiosi palazzi del potere cittadino siano stati forzati con la pistola alla tempia per aprire i cordoni della borsa.
Fiutando l’oggettiva impotenza del basket a diventare un fenomeno metropolitano come il calcio, una dicotomia che si esprime compiutamente vedendo la ricca provincia italiana primeggiare negli sport minori (basket, volley, rugby) e invece 3-4 soli club calcistici, vere Armate Brancaleone, tenere in scacco l’Italia dei giornali, delle Tv, dell’economia. della finanza e della politica, la Mens Sana ha avuto intuito e si è buttata a capofitto per riscuotere il suo credit sportivo. Da oltre 120 anni è una bandiera cittadina, ha migliaia di tesserati, moltissime sezioni, dalla scherma agli scacchi, decine e decine di istruttori. Una community unica, che rappresenta almeno il 10 per cento della popolazione cittadina, percentuale confermata dalle 5300 presenze di media al Palasclavo. E soprattutto una community trasversale, diciamo forse bianca-azzurra, non ostentatamente politicizzata, presente in tutti i gangli della società, e che ha ben lavorato in questi anni nei centri del potere con una convinzione divenuta poi uno scopo collettivo: fare del basket, sport nobile e tradizionale della città del Palio, la 18.a contrada, ed elemento di sviluppo (e viluppo!) del territorio. Naturalmente un discorso simile nel nerissimo e povero Duecento (il Dugento di Cecco Angiolieri) avrebbe portato al rogo o al taglio della mano o del piede, ma negli anni nostri, dell’edonismo reganiano, della comunicazione e del marketing come causa e non come effetto, si è astutamente sintonizzato sulle nuove dinamiche sociali e politiche, per cui lo sport può diventare una vetrina e oggetto di consenso più della ricerca che dell’agricoltura.
Il problema è vedere non tanto i costi, ma anche i risultati. E non solo quelli sportivi, che nessuno nega, e non solo per i quattro scudetti. Parlo dei ritorni di immagine, sui quali penso ci saranno riscontri precisi al di là dei commenti degli interessati, per i quali “questo è un sistema vincente”. La cosa strana e contraddittoria è che solo 15 anni fa, i signori dei prestigiosi palazzi erano tirchi col basket – pur amandolo e conoscendolo fin nei più piccoli dettagli tecnici, per cui passare un’ora con gli amabili e dotti Piero Barucci (il Mussari d’epoca) o Vittorio Mazzoni della Stella (il Cenni della situazione) era come sfogliare un’enciclopedia di questo sport. Non so invece se i loro eredi, i cosiddetti “signori inurbati” di oggi hanno la stessa sensibilità e conoscenza, e forse per questo che parametrano tutto sul refrain: investimento e ritorno. E poi mettiamoci l’acquiescenza del movimento prono di fronte a uno sballo tremendo per cui non si dà lo stesso peso del risultato di Siena a un 3° posto di Teramo con 1,5 milioni di spesa, vale a dire solo il 10 per cento, realtà peraltro utile a ricordarci che esistono anche i giocatori italiani, e che la nostra logica deve essere ormai più quella degli slavi europei che della NBA. Un modello improponibile in assoluto, che però se sarebbe applicabile in giuste dosi, come nel caso del salary cap e delle scelte per riequilibrare il sistema e dargli una visione di sviluppo uniforme, e non da corte Borbonica.
Gli è, insomma, che Siena, come spesso è accaduto nella sua storia turbolenta ma prestigiosa, guelfa nell’anima e ghibellina (magari per i vantaggi di essere alleata dell’imperatore, e questo ancor prima dei Comuni, già nel tardo 800 con Carlo Magno che concesse alla comunità della “vetus senae” privilegi e protezione come ho scritto in una mia novella), è diventata una splendida eccezione dello sport italiano.
Può darsi sia l’affermazione di una sana e radicata cultura popolare e sportiva, può darsi sia neo-plutocrazia, l’importante è che il gonfalone sventoli sulla Torre del Mangia.
Però: cui prodest?. La Mens Sana è un giochino che funziona, “piace e diverte” (ma forse sempre meno, per il vizio italiano memore dall’episodio di Maramaldo). E’ affidato invece ai posteri il giudizio storico, mentre al presente mancano altri elementi di giudizio, ad esempio un miglior risultato in Eurolega. Ma per questa coppa basta un nonnulla per ottenere uno scatto di qualità, credo che sia necessario un big man (o un back up come Marconato), senza più aspettare i sospirati progressi dell’amato beniamino (Eze). Dopodichè, solo i tempi futuri chiariranno se davvero “l’intelligenza di uno solo è come un sacco bucato”, un aforisma di contenuto morale che va letto non come un riferimento a un singolo individuo ma a un sistema, per dirla alla senese, che ho imparato in questo splendido territorio, o se questo 4° scudetto con una sola sconfitta, una dittatura di cui non s’ha memoria, ci conduce nell’”era marziana” di Siena.
Ma anche della povertà del basket italiano, registrando i tagli di Treviso, Roma, Virtus Bologna e credo anche Milano.
SIENA. Cui prodest?. Semplifico la locuzione di Seneca non per descrivere “il misfatto che reca vantaggio solo a se stesso”. Non sono un tribuno deputato a riportare “il grido di dolore” collettivo ma come giornalista e uomo della strada mi chiedo quale sia l’utilità di un successo – i trionfi sono un’altra cosa, hanno un contenuto epico e morale – così schiacciante accompagnato in Tv e sui giornali da una serie di commenti riassumibili in aggettivi che tralascio. E purtroppo non certo riconducibili a un concetto di “simpatia generale” che dovrebbe suscitare l’esito di una competizione sportiva equilibrata. E me ne dispaccio, e non solo perché sono sempre stato dalla parte dei più deboli (e la Mens Sana lo sa bene…), ma per questi corazzati giocatori – davvero eccezionali – il gioco di Simone Pianigiani, davvero esplosivo, in grado di coinvolgere emotivamente tutta la sua truppa e declinare l’ego individuale con il traguardo comune. Gioco, ripeto, autentico elemento primario di marketing. E naturalmente complimenti anche il management, al neo-presidente (o “presidetutto”, concedetemi questo neologismo che non è una battutina) del quale, lo sanno tutti (lui per primo), intravedevo la potenzialità del selfmademan berlusconiano quando ancora vendeva spazi pubblicitari alla Mens Sana. Verso la metà degli anni 90 scrissi infatti che “un giorno il basket dovrà fare i conti con lui”, come riportò in un suo articolo il buon collega Renzo Corsi passato – come tanti altri – al tipico scetticismo senese per il nuovo alle mie tesi su quello che ormai è diventato un personaggio pubblico.
In fondo, a vedere l’Armani fatta a pezzettini e costretta al cappotto (termine quanto mai spregioso per la squadra del re degli stilisti, di cui parlerò nella mia prossima puntata), la nemesi ha fatto il suo paziente lavoro. Avverto infatti la stessa “rabbia” di 40 anni fa, quando il Simmenthal, la società che non perdeva mai, andava a casa di Pino Brumatti a Gorizia e con 30 palloni si portava a casa il prezioso cartellino. Oggi le cifre sono diverse, lo sport è sempre più plutocrazia strisciante sotto altre forme, vale a dire con molti zeri in più. E non voglio essere il portavoce di chi non può lanciare la prima pietra – parlo dello sdegno del signor Gilberto Benetton – per le “spese esagerate” che si riflettono sugli azionisti della banca senese (io sono fra questi, e la mia preoccupazione non riguarda la spesa, per un budget che ha raggiunto la cifra-record di quasi 17 milioni, ma di altre cose) e che con un sussulto inusitato la Lega basket ha pubblicato sul suo sito.
Non è colpa della Mens Sana se il sistema accetta queste dittature, che purtroppo vengono metabolizzate all’italiana, con malcelati rancori, antipatie e accuse nei confronti di chi vincendo in fondo sta facendo al meglio il proprio lavoro. Questo basket avventuristico è gestito da clan l’un contro l’altro armati, e lo dimostra proprio il tourbillon alla guida della Lega, espressione ogni volta di un potentato e di una logica. E costi quel che costi (alludo a certi stipendi che fanno arrossire in tempi di crisi anche quelli di grandi manager…).
Nel mio piccolo, io cerco di esprimere un “libero pensiero” in maniera documentata e utile a una discussione produttiva, non ho la presunzione di voler anticipare – e scavalcare – i tempi di una realtà storica. Parto da una realtà oggettiva-soggettiva, il caso Siena. Il caso come fatto in sé, e non come “pietra dello scandalo” fino a prova contraria, perché non credo che i signori che da un decennio sono stati intronati nei prestigiosi palazzi del potere cittadino siano stati forzati con la pistola alla tempia per aprire i cordoni della borsa.
Fiutando l’oggettiva impotenza del basket a diventare un fenomeno metropolitano come il calcio, una dicotomia che si esprime compiutamente vedendo la ricca provincia italiana primeggiare negli sport minori (basket, volley, rugby) e invece 3-4 soli club calcistici, vere Armate Brancaleone, tenere in scacco l’Italia dei giornali, delle Tv, dell’economia. della finanza e della politica, la Mens Sana ha avuto intuito e si è buttata a capofitto per riscuotere il suo credit sportivo. Da oltre 120 anni è una bandiera cittadina, ha migliaia di tesserati, moltissime sezioni, dalla scherma agli scacchi, decine e decine di istruttori. Una community unica, che rappresenta almeno il 10 per cento della popolazione cittadina, percentuale confermata dalle 5300 presenze di media al Palasclavo. E soprattutto una community trasversale, diciamo forse bianca-azzurra, non ostentatamente politicizzata, presente in tutti i gangli della società, e che ha ben lavorato in questi anni nei centri del potere con una convinzione divenuta poi uno scopo collettivo: fare del basket, sport nobile e tradizionale della città del Palio, la 18.a contrada, ed elemento di sviluppo (e viluppo!) del territorio. Naturalmente un discorso simile nel nerissimo e povero Duecento (il Dugento di Cecco Angiolieri) avrebbe portato al rogo o al taglio della mano o del piede, ma negli anni nostri, dell’edonismo reganiano, della comunicazione e del marketing come causa e non come effetto, si è astutamente sintonizzato sulle nuove dinamiche sociali e politiche, per cui lo sport può diventare una vetrina e oggetto di consenso più della ricerca che dell’agricoltura.
Il problema è vedere non tanto i costi, ma anche i risultati. E non solo quelli sportivi, che nessuno nega, e non solo per i quattro scudetti. Parlo dei ritorni di immagine, sui quali penso ci saranno riscontri precisi al di là dei commenti degli interessati, per i quali “questo è un sistema vincente”. La cosa strana e contraddittoria è che solo 15 anni fa, i signori dei prestigiosi palazzi erano tirchi col basket – pur amandolo e conoscendolo fin nei più piccoli dettagli tecnici, per cui passare un’ora con gli amabili e dotti Piero Barucci (il Mussari d’epoca) o Vittorio Mazzoni della Stella (il Cenni della situazione) era come sfogliare un’enciclopedia di questo sport. Non so invece se i loro eredi, i cosiddetti “signori inurbati” di oggi hanno la stessa sensibilità e conoscenza, e forse per questo che parametrano tutto sul refrain: investimento e ritorno. E poi mettiamoci l’acquiescenza del movimento prono di fronte a uno sballo tremendo per cui non si dà lo stesso peso del risultato di Siena a un 3° posto di Teramo con 1,5 milioni di spesa, vale a dire solo il 10 per cento, realtà peraltro utile a ricordarci che esistono anche i giocatori italiani, e che la nostra logica deve essere ormai più quella degli slavi europei che della NBA. Un modello improponibile in assoluto, che però se sarebbe applicabile in giuste dosi, come nel caso del salary cap e delle scelte per riequilibrare il sistema e dargli una visione di sviluppo uniforme, e non da corte Borbonica.
Gli è, insomma, che Siena, come spesso è accaduto nella sua storia turbolenta ma prestigiosa, guelfa nell’anima e ghibellina (magari per i vantaggi di essere alleata dell’imperatore, e questo ancor prima dei Comuni, già nel tardo 800 con Carlo Magno che concesse alla comunità della “vetus senae” privilegi e protezione come ho scritto in una mia novella), è diventata una splendida eccezione dello sport italiano.
Può darsi sia l’affermazione di una sana e radicata cultura popolare e sportiva, può darsi sia neo-plutocrazia, l’importante è che il gonfalone sventoli sulla Torre del Mangia.
Però: cui prodest?. La Mens Sana è un giochino che funziona, “piace e diverte” (ma forse sempre meno, per il vizio italiano memore dall’episodio di Maramaldo). E’ affidato invece ai posteri il giudizio storico, mentre al presente mancano altri elementi di giudizio, ad esempio un miglior risultato in Eurolega. Ma per questa coppa basta un nonnulla per ottenere uno scatto di qualità, credo che sia necessario un big man (o un back up come Marconato), senza più aspettare i sospirati progressi dell’amato beniamino (Eze). Dopodichè, solo i tempi futuri chiariranno se davvero “l’intelligenza di uno solo è come un sacco bucato”, un aforisma di contenuto morale che va letto non come un riferimento a un singolo individuo ma a un sistema, per dirla alla senese, che ho imparato in questo splendido territorio, o se questo 4° scudetto con una sola sconfitta, una dittatura di cui non s’ha memoria, ci conduce nell’”era marziana” di Siena.
Ma anche della povertà del basket italiano, registrando i tagli di Treviso, Roma, Virtus Bologna e credo anche Milano.