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Per chi suona la Campana. Basket, sport da donne

di Enrico Campana
SIENA. In attesa di sapere in quale era geologica  ci collocherà Simone Pianigiani con la sua nazionale, se in quella paleozoica, glaciale, venusiana o semplicemente post-pragmatica per cui l’innovazione è dei tempi, non forzata, dipendente (darwinianamente) dall’evoluzione della specie, e non deve – mi sembra di capire dalla sua linea –  diventare  uno stato mentale di persone irrazionali preposte alle decisioni, inclini alle avventure e l’innovazione per l’equazione “a minor rischio minori probabilità di sbagliare e perdere“ (parafrasando il Magnifico “del doman non v’è certezza”), finalmente anche il basket arriva con ritardo a conquiste che hanno rivitalizzato alcun sport italiani e anche il concetto di maglia azzurra.
Poche settimane fa un prestigioso magazine mi ha chiesto di scrivere un articolo riguardante un argomento di lettura. Gli ho  proposto un argomento storico (Cecco Angiolieri e Dante Aligheri, due poeti alla battaglia di Campaldino), uno letterario  (l’influenza della poesia sulla musica) e uno sportivo che ritenevo il più frivolo. Alla fine hanno scelto il più frivolo, ma anche il più vero e attuale: l’escalation dello sport femminile italiano, che ha raggiunto a Pechino un punto molto alto, secondo una profezia che fece anni fa Mario Pescante, ex presidente del CONI e vicepresidente del CIO, oggi politico Pdl  ma soprattutto grande conoscitore dello sport, venendo dall’atletica. Mario aveva detto almeno 2-3 lustri fa che lo sport italiano sarebbe stato beneficiato dalla crescita dello sport femminile come fatto sportivo-culturale. Non aveva fatto riferimento alla famosa battaglia dei sessi televisiva di Billie Jean King e Riggs a suon di smash e di volèe, né all’influenza dei movimenti di liberazione femminili, al femminismo, ma a una crescita biologica-filiologica-psicologica. Le sue tesi sono andate allo sconto col bilancio della spedizione azzurra dell’Olimpiade cinese, e contro il 39 per cento di atlete le donne hanno conquistato 4 medaglie d’oro su 8, se non erro  11 in totale. Ma quel che più pesa, in quanto a valore intrinseco, è il simbolismo e d’importanza delle stesse, e non si parla di sterili discorsi di “quote rose”, di look. Si è trattato infatti delle medaglie più popolari e glamour, quelle del primo oro olimpico del nuoto “griffato” dalla Giunone  veneta Pellegrini, e la terza consecutiva e storica nell’arco di 3 edizioni dei Giochi del fioretto individuale della marchigiana Valentina Vezzali. Sono state anche le medaglie dell’imprevedibilità, con  la friulana Cainero e la sua infallibile carabina o della judoka toscana Quintavalla, e anche quelle della simpatia. Vedi  il caso dell’inossidabile velista grossetana Sensini, che addirittura si è giovata nella Regione della cooperazione del sostegno di un Consorzio di Prodotti Tipici Toscani e il caso dell’indistruttibile tedesca-romagnola  della canoa, una pluraimamma di 45 anni, Josefa Idem, premiata dell’anno da “Casato Prime Donne”, il riconoscimento di Montalcino che spazia nel campo della scienza, della ricerca, dell’imprenditoria, e ha voluto significare una conquista significativa dello sport.
Alle Olimpiadi non hanno brillanto le pallavoliste e le tenniste, ma queste due discipline – fra le più amate dalle ragazze e anche dai voyeur maschili – si sono riscattate in seguito e se l’una ha vinto l’Europeo e questo fine settimana è andata a vincere in Brasile sul campo delle campionesse olimpiche e sostiene il palinsesto sportivo di La7, le altre hanno vinto per la seconda volta la Fed Cup, la Davis femminile con Flavia Pennetta e Francesca Schiavone, che poi ha vinto in giugno a Parigi il Roland Garros dove non era fra le teste di serie, incassando un premio di 1 milione e 180 mila euro, la cifra più alta mai vinta da un’atleta azzurra,oltre al quale la Federtennis in tempi di crisi economica ha messo anche il proprio personale di 400 mila euro per la nevrile  milanese con sangue partenopeo.
L’anno scorso era passata quasi inosservata nell’anno funesto della palla a spicchi la medaglia d’oro dei Mediterranei, un contributo prezioso  al movimento e all’avanzata dello sport femminile, che non è stato tradotto in moneta sonante in questi pre-europei dalla squadra, con un parallelismo perfetto con quella di Pianigiani. E nessuno s’era filato l’argento di due anni fa della squadra cadette, le 16enni terribili, che ebbero il torto di andare avanti 28-6 con le spagnole e di buttare al vento ben 29 palle perse. Conoscevo però bene, anche se non personalmente, il coach di quella squadra, il professor Giovanni Lucchesi, uno degli ultimi dei mohicani col pallino del team-working, dei fondamentali, della palestra, della selezione, della sdrammatizzazione, esattamente come altri pochi colleghi, uno dei quali è il senese Umberto Vezzosi, che ha forgiato i quattro ragazzini della Virtus che con il mensanino Bianchi fanno quasi il 50 per cento della mini-nazionale impegnata in questi giorni nell’europeo. Una figura d’antan, lontano dallo stereotipo degli allenatori-yuppies delle minors, veri urlatori di nessun successo.
La nazionale juniores, che da sempre nell’immaginario di un europeo ha una funzione di squadra-termometro di un movimento e della sua organizzazione, venendo da un 12° e ultimo posto dell’anno scorso ha vinto 9 gare su 9 battendo nella finale la Spagna, che sta al settore femminile come il Dream Team al maschile. La squadra aveva anche ben 8 gigantesse sopra il metro e 80, un attestato morfologico che aiuta a debellare il pre-concetto di razza tanto caro a uno dei miei grandi maestri (Gianni Brera). La prima decade del terzo millennio è stata quella del regresso del basket, solo il coach dal pizzetto grigio e il sorriso simpatico ha vinto l’oro e un oro e d’argento negli ultimi due anni. Le azzurre hanno difeso come la Mps nelle gare scudetto, al punto che di volta in volta le grandi tiratrici rivali venivano cancellate. Questa squadra  azzurra non aveva giocatrici del Costone, che però ha un settore minibasket di grande qualità  e potrà incoraggiare in futuro un investimento in una squadra da scudetto, anche se, paradossalmente, il cambio di costume è più rapido al sud (vedi gli scudetti di Napoli e Taranto), che nella città del Palio dove una contrada impedisce il voto alle donne ma ha fatto anche conoscere il basket in Italia grazie a una professoressa di ginnastica. 
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