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La storia di Pino Brumatti, dal Simmenthal a Siena

Un Forrest Gump italico, divertente come pochi in campo e fuori

di Enrico Campana

SIENA. Figuriamoci se in una giornata di gennaio grigia e gelida come questa con le neve mossa dal vento, un personaggio quale Pino Brumatti dovesse leggere, il rituale comunicato che parla di lui annunciando che “per la sua scomparsa sarà osservato un minuto di silenzio su tutti i campi”.

Un giorno, tanti anni fam scherzavo con Pino sull’idea della morte, proprio perché non solo per l’età la sentivamo come una cosa lontana ma perché con lui era bello quello che oggi si chiama il kazzeggio in libertà. Volevo cercare di capire come una persona piena di vita e con suo spirito avrebbe voluto, potendolo, scegliere come congedarsi da questa terra. Prima di rispondere, mi fece una domanda: “dime, dime dai…?”  Voleva un suggerimento, un’imbeccata? Gli dissi che personalmente avrei voluto disperdere le ceneri sopra la mia amata Parma al canto dell’Uomo in frack di Modugno, e poi tutto scritto: una bella festa con gli ultimi amici con le canzoni di Bruno Lauzi, niente lacrime, solo aneddoti, la maglia della Stella Azzurra con la stella al centro, la più bella maglia del basket della mia gioventù, e questa frase finale sul cartoncino d’invito: “C’era, ora dov’è?”.  “Ciò, xe tuto… tropo complicato”, fu il suo commento. E regalandomi il suo eterno simpatico sorriso fanciullo, disse: “Mi me toca presentarme come quel del numero 6, pensa ti che onor..”.

Il 6 era la maglia che Cesare Rubini dopo averlo strappato alla goriziana per la favolosa cifra di 10 palloni da basket, gli consegnò al suo arrivo al Simmenthal. Un cimelio non solo della sua carriera ma della storia della pallacanestro alla quale appartiene come una delle figure più importanti e amabili, di quelle che danno il 110 per cento, onorano non solo per l’amore per la canotta sponsorizzata ma il senso sportivo del gioco, la lealtà, l’impegno, senza pensare “quanto mi costa, e quanto mi rende?”.

Non è un’immagine di un basket antico e glorioso, non è un’immagine di una sua azione di pallina da flipper dentro un parquet che dopo un bim bum bam trovata il canestro e tornava in difesa (parola grossa per lui…), stirando le labbra, come per dire: “vardame, ciò… sta’ tento…”. Si tratta di una piccola cornice dei tempi in cui il basket italiano era davvero la miglior espressione e non un’altra cosa, una cosa certamente che poteva essere migliore, forse incompiuta, perché se sono gli uomini – nel bene e nel male – a fare la storia, da un certo punto  in poi il basket non ha avuto più le grandi figure di una volta, i mecenati, e nemmeno i grandi presidenti, e oggi i presidenti lo fanno coi soldi degli altri. Che è un’altra cosa, significa che non puoi più prendere dei rischi e rispettare il senso sportivo del gioco, quello che è la sua pietra filosofale. E le certezze non sono i vivai, i giovani, ma i budget, i passaporti, gli sponsor, i finanziatori, il marketing e via.

Il Pino rischiava ogni volta in un’entrata, perché era una specie di Tomba del basket, trovava sempre il modo di arrivare a canestro in sottomano (oggi lay up), a meno che con mezzo metro di vantaggio non si facesse certo pregare per tirare da fuori, quando ancora non c’era il tiro da 3 punti. Sandro Gamba però riuscì a dotarlo di un arresto e tiro, e lo eseguiva bene, passando dal palleggio al tiro però quasi senza staccarsi da terra perché era uno di quei prodigi capaci di beffarsi della forza di gravità, come Renato Villalta, che non saltava un foglio di Gazzetta, come diceva il grande Aza Nikolic. La sua mano mancina era quasi una sconosciuta, ma da vero ruspante non aveva bisogno di fondamentali classici, e quando aveva bisogno di superare i suoi limiti ci riusciva con la forza di volontà, l’inventiva, il cuore.

“Per ben due lunghi anni – ha raccontato una volta Sandro Gamba – insegnai palleggio-arresto-tiro a Pino. Mi costò anche un Rolex, perché ero tanto arrabbiato per l’esercizio che gli tirai dietro l’orologio. Lui lo schivò e il Rolex si ruppe. Ma poi con quel movimento Pino ha giocato fino a quarant’anni». Non ricordo bene, invece, ma credo fosse Charlie Caglieris a raccontare la gherminella del Pino Brumatti difensore. Era sempre pronto allo scatto in contropiede come un centometrista dell’atletica, stava sulle punte, non teneva la concentrazione e spesso metteva la mano sul ginocchio del palleggiatore, quello perdeva l’equilibrio e la palla e lui era già a canestro gonfiando il petto.

Ricordo tante cose belle della carriera di Pino Brumatti, a cominciare dall’ultimo scudetto del Simmenthal nel 1972, società che lasciò nel ’77 per portare il grande basket a Torino, una bandiera autentica che poi sventolò anche a Reggio Emilia dove nacque il suo gran sodalizio con Dado Lombardi, suo impareggiabile pigmalione dopo Cesare Rubini, facendoli sembrare uguali a due famosi personaggi di Cervantes, Don Chisciotte e il fedele scudiero Sancho Panza”, che però ogni volta tornavano a casa vincitori o vendevano cara la pelle.

Leggo che il presidente della FIP Dino Meneghin, appresa la notizia della prematura scomparsa di Pino Brumatti, era commosso e colpito a titolo personale e deciso a onorarne la memoria. Magari gli farebbe piacere un incontro di vecchie glorie, con una di quelle gag di cui Superdino, del quale fu avversario, era unico nei panni di giocatore.

Per la cronaca Pino Brumatti è stato uno dei giocatori simbolo dell’Olimpia Milano negli Settanta. Con l’Olimpia ha vinto uno scudetto (1972), una Coppa Italia (1972) e tre Coppe delle Coppe (1971, 1972, 1976). In serie A ha giocato 489 partite e segnato 6.894 punti.
Con la maglia della Nazionale 102 presenze e 570 punti. In azzurro ha partecipato ai Giochi Olimpici del 1972 a Monaco e del 1976 a Montreal e a due campionati Europei (Napoli 1969 e Barcellona 1973).
La FIP, lo scorso giugno, lo aveva insignito della Italia Basket Hall Of Fame. Ha chiuso la sua carriera a Siena, nella Mens Sana di Dado Lombardi e del presidente galantuomo Giancarlo Rossi, portandola in A-1 nel ’90. Poi è stata tutta un’altra storia, qualche breve esperienza dirigenziale e l’eclissi di un mondo che – cambiando – forse non è riuscito ad avere tanti personaggi così positivi, d’impatto. Un Forrest Gump italico, divertente come pochi in campo e fuori. Non omologato né standardizzato come quelli che via via sono oggi i nostri polli d’allevamento.

(foto di Augusto Mattioli)

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