di Enrico Campana
SIENA. Sulla strada della Grande Amata (*) in questa stagione c’è, dunque, la Fortezza che nell’ordine ha:
1) distrutto (93-67) la Fortitudo,
2) giocato la miglior partita della stagione,
3) dimostrato di non essere “Boykins-dipendente”
4) Calato l’asso Langford campione tutto tecnica, costanza e cuore;
5) Virato di 180 gradi rispetto a un anno fa ponendosi come la sfidante ufficiale di Siena che incontrerà il 4 gennaio in trasferta.
Le rocambolesche vittorie di Pesaro e Roma, le “V nere” (le maglie, i colori sociali, anche le pubblicazioni sono rigorosamente bianconeri sono un po’ la loro Balzana…) lasciano il posto a una squadra di potenziale pari ai senesi, ben costruita in estate ma poi quasi ripudiata dal suo tecnico, ragione che gli è costata la panchina dopo 5 giornate.
Fra le poche aspiranti allo scudetto, un gruppetto che perde la Lottomatica mai più ripresasi dopo la sberla interna contro Siena, capace di mettere alla porta Hawkins, il miglior giocatore dell’ultima finale. Fin dalla chiusura del mercato ho sostenuto che la Fortezza è il club con maggiori prospettive di miglioramento. Ancor più adesso per il contributo che può offrire Tonino Zorzi. Il paron del basket, che nella sua lunga carriera ha lasciato un ottimo ricordo anche a Siena ai tempi dei Lanfredini, ha accettato con entusiasmo un ruolo umile ma preziosissimo, e riposto le mazze da golf in un armadio. Questo Cincinnato goriziano, grande cecchino Anni Sessanta nell’Ignis del primo scudetto, quando provava in solitario il tiro anche mille volte, usando se stesso come cavia per dimostrare l’importanza dei fondamentali, ha creato con Bonicciolli un sodalizio di successo che dopo Avellino è destinato a dare buoni frutti anche sotto le Due Torri. Il lavoro sui fondamentali, quello che costruisce la calligrafia tecnica di un giocatore, è un aspetto trascurato da molti suoi giovani colleghi ma che i giocatori stranieri richiedono (vedi la scelta di Petteri Kaponen che ha ragionato in modo opposto a Gallinari: aveva un contratto garantito nella NBA, ha preferito rinviare di un anno il suo sogno per crescere come giocatore e Zorzi l’ha subito rimesso in quintetto per dare spinta al contropiede e i cambi di ritmo, aiutare Boykins in regia, aumentare la pericolosità nel tiro pesante e per il gioco d’interdizione sul portatore di palla. Un lavoro da pontiere, oscuro, per gente che conosce il basket e basilare in ogni gara, come domenica.
Cerco di regalarmi una volta all’anno il piacere del derby per eccellenza, l’ultimo cittadino, da quando, pressione dopo pressione, mi è tornata la voglia di scrivere “easy going”. Da battitore libero.
Il derby in salsa felsinea è uno spettacolo di costume, di amore trasversale per la pallacanestro della Dotta, conosciuta universalmente ormai come “Basket City”, una Harlem ricco-borghese per la densità di squadre, giocatori, appassionati (anche illustri:Lucio Dalla, Mingardi, Albanese, Morandi, e i politici, Fini, Casini e tutta la famiglia Prodi, ecc), progetti (la Virtus ha acquistato il Palamalaguti, ma la Fortitudo non intende da meno), rivalità spesso colorita (ad esempio domenica scorsa i virtussini hanno puntato non solo sullo scontato “sochmel” ma soprattutto su un’interpretazione antropologica sull’”homo sapiens” bianco-blu), senza trascurare il fatturato, se pensiamo ai 12 mila spettatori settimanali come somma delle due squadre, il costo salato del biglietto per cui 4 derbies fanno in tutto l’incasso della Mens Sana nello scorso anno (per la precisione 884.950 euro). Naturalmente è anche il grande cuore della gente di Bologna, e l’ultima partita ha aperto ufficialmente la grande maratona di Telethon per la Ricerca Scientifica e offerto , con la presenza dei cestisti in carrozzina, anche una nuova pagina del progetto sportivo-educativo “La Vita è bella” .
Il derby di Bologna, insomma, potrebbe stare al campionato come la grandezza del Palio all’ippica, per usare un paragone riduttivo. E’ molto di più della sua natura e rappresentazione sportiva. Si tratta di una leggenda nata dall’inclinazione civica bolognese per il gioco, anche se può essere a volte crudele e appassionante. Anche all’ombra delle Due Torri la squadra vincente è quella che, teoricamente, sale sulla torre più alta in senso di dominio, e può sfottere e tiranneggiare fino al prossimo derby.
Per quanto riguarda Bologna, volente o nolente da sempre il crocevia dello scudetto, il derby è anche la partita che marca la stagione, la cartina di tornasole delle proprie scelte, delle ambizioni. E così è stato anche stavolta. La Fortezza-Virtus è rinata – alla grande – dalle ceneri meste di un anno fa quando la Fortitudo di patron Sagrati (che dicono sia in attesa di apparentarsi con l’emiliano re dell’arte che ha lasciato Milano: Giorgio Corbelli) bruciò le residue speranze. Il verdetto aveva aperto una delle peggiori crisi della gestione di Claudio Sabatini conosciuto come “mister Futur Show” per aver fatto fortuna con attività fieristiche e ribattezzato felicemente invece come “cestofilo” “Re Sabba” per il panico che suscitano le sue repentine decisioni, spesso caratterizzate da sfuriate memorabili. Probabilmente il rampante Sabba non sa frenare la lingua (a dir poco), come sarebbe utile a chi del basket non sa un’acca, anche se ovviamente bisogna fargli un monumento per aver dimostrato un fegato così. Il personaggio che garibaldinamente ha deciso di sfidare una banca come il Monte, ha infatti confessato di aver acceso un mutuo di 20 milioni di euro per acquistare dai Cabassi, i sabiunatt (cavatori di sabbia, nda) lombardi, l’impianto di Casalecchio e trasformarlo in una delle grandi arene europee. Molti imprenditori nel basket ci hanno lasciato le penne, ma non è così a Bologna dove i due patron sono considerati alla stregua di due veri Consoli. Bologna è l’eccezione della regola, l’imprenditoria rampante non smette di cimentarsi nel basket, anche se più brutale, aleatoria, anche di quella tradizionale oggi molto volatile in quanto i “dipendenti” sono bambini ipernutriti e spesso viziati e coccolati da un sistema imperfetto come quello nostrano.
In questa rubrica cercherò di darvi, quando ci sono, notizie di “prima mano” che definire scoop sarebbe troppo pomposo. E’ giusto, quindi, ricordare stavolta come è maturato l’ingaggio di Keith Langford, copia mancina della “quinta colonna” dell’Amata, Romain Sato. Un colpo del general manager virtussino Andrea Luchi, un quarantenne toscano di Montecatini che per traslato diventa “l’anti-Minucci”. Oltre al primato di essere l’unico gm ad aver resistito due stagioni con Sabatini-Sabba, in estate si è giocato la faccia e la carriera sull’ingaggio di Keith Langford, quando alla sua società gli prese lo sconforto – eufemisticamente – per il bidone estivo di Will Bynum, il MPV della finale di Eurolega, considerato il perno del mercato. Luchi seguiva Langford dai tempi di Sassari, quando il versatile e muscolare moro texano giocava a Soresina in A-2. Grazie al buon rapporto con Nick Lotzos, agente americano d’origine greca, l’ha portato alla Virtus. Ma la notizia qual è?. La notizia è duplice: nel mezzo della trattativa con la Virtus, la NBA gli ha offerto il doppio, diciamo 700 mila dollari, lui ha firmato per 300 e quindi certamente si tratta del miglior affare dell’anno, mentre il peggiore è quello di Roma. E fra i due affari c’è un nesso… Raccontano che Langford fu offerto anche alla Lottomatica la quale storse però il naso, per loro era solo un comprimario, tanto era abbagliata da Brandon Jennings, il golden boy. Sarà anche per questo, per lo strano metro dei “plavi” nelle scelte, che adesso tira forse una brutta aria per tutta la nutrita colonia slava del nostro torneo: Sakota, Savic, Repesa, Becirovic. Per Fortitudo e Roma non sono giorni tranquilli mentre Langford fa volare le “V nere”.
(*) La Grande Amata, ove ci fossero dubbi, è naturalmente la Mps-Mens Sana che brucia record ad ogni piè sospinto…