Il principe ha lasciato in silenzio il mondo dello sport
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di Enrico Campana
E’ terribile il castigo-contrappasso riservato dal destino a Cesare Rubini, credo la mente più alta, forte e anticipatrice nella storia del basket, anche se talvolta più per ipocrita timore reverenziale che per rispetto del suo rango (noblesse oblige) molti della parrocchietta del pissi bau bau si sono sentitisi schiacciati da questa figura simile sportivamente al Colosso di Rodi. Il monumento di un certo splendore ellenico che esercitava il suo magnetismo su quel mare adriatico che fa da spartiacque fra Occidente e Oriente nel quale Cesare è nato e dove, dal ritiro dalle scene, andava spesso rifugiandosi nelle amate isole greche.
Il suo destino, se devo però paragonarlo a un personaggio storico (come lui è stato, è e resterà!) è simile – anche nell’ultima parte della sua esistenza – al principe russo Potiomkin. Difatti il Cesare del basket rifacendosi alla famosa invettiva d’imperio “Aut Caesar Aut Nullus “(Number One or Nothing, Primo o Nessuno..) si è attribuito – giustificatissimo – come Totò il titolo di principe, grazie anche a quella sua propensione di innato arbiter elegantiarum. Da qui la scelta delle affascinanti tute di raso rosso tanto distanti dal concesso odierno dei Jeans firmati, per cui mi piacerebbe che un grande quale re Giorgio le replicasse per la squadra magari riuscendo a trasformare in questo modo i suoi Patroclo in guerrieri d’antan.
Pur conclamato Principe degli anelli, accettò di stare al gioco quando questo stava facendosi un po’ “sporco”. Un giorno infatti mi chiamò in redazione per scrivere un articolo per creare un dilemma sulla sua potenza: “Principe o Padrino?”. Sapeva che i lillipuziani avevano già cominciato ad avanzare e nelle loro mutazione robotica sarebbero diventati dei gremlings aggressivi. Ha recitato la sua parte alla stregua di un altro immortale principe, il Potiomkin favorito di Caterina di Russia. Il principe russo combatteva le guerre, vincendole, per la gloria dell’imperatrice sua amante. La proteggeva, esaltava le sue gesta imperiali magari usando qualche stratagemma da statista intelligente e devoto. Vedi l’episodio del famoso viaggio dell’imperatrice attraverso tutto l’impero, da nord al sud, con la geniale trovata cinematografica di presidi organizzati di sudditi spostati da una località all’altra al passaggio della carrozza imperiale per moltiplicare il culto dell’adorazione della signora di tutte le Russie. Quella trovata, insomma, che sarebbe diventata una gas mussoliniana, una forma di propaganda peraltro ben più innocente di quella criminale della politica di oggi. Ohibò!.
Cesare non è stato solo un grandissimo allenatore pur il record degli scudetti, ma una vera gloria dello sport italiano, campione olimpico di pallanuoto. E’ stato invece meno famoso come cestista nel dopoguerra. Adolfo Bogoncelli l’inventore delle scarpette rosse, degli abbinamenti (Simmenthal fa ancora carne in scatola (ma per quelli della mia generazione è sinonimo di grandezza sportiva e di fine cultura relativa più che di cibo.. ) ne fece il portabandiera della causa per l’ italianità di Trieste.
Non dimentichiamo mai questi club benemeriti del basket, anche se magari è difficile stabilire la tracciabilità di un percorso giudicando le gestioni attuali. La Mps basket non è nata dentro il caveau della banca ma ancor prima di promuovere ufficialmente il basket (nel 1907 in un saggio ginnico con una squadra di ragazze) la Mens Sana era già una meritoria polisportiva, tipo ginnasio greco, alla quale si deve (nel tardo ottocento) l’introduzione dello sport nelle scuole con provvedimento governativo. Grande è anche la storia della Virtus Bologna che l’avvocato Porelli ha riportato ai vertici, e Cazzola ha onorato.. Diversa e meno antica la mitologia dell’Olimpia Milano, le cui fondamenta vennero gettate da Bogoncelli nel comasco.
Il grande Bogos, manager intraprendente unico,“interrato” come tanti altri con poca gloria e molta indifferenza, era avvezzo ai valori patrii. Gli riuscì infatti di reperire, nel magro dopoguerra dove il boom economico era bel oltre il sogno della gente, i finanziamenti necessari per sensibilizzare gli italiani attraverso gli ideali dello sport, per scongiurare che persa la nazione italica il conflitto mondiale i titini sottraessero al Bel Paese oltre ai territori dalmati una città unica. E non solo come impasto etnico, ma anche culturale e sportivo e grandemente strategica nella grande storia d’Europa ripensando a quando le aquile asburgiche venivano issate sui pennoni del porto giuliano per il trasporto del sale da Salzburg al mare.
Rubini rappresentava appunto i ragazzi d’azione assieme a molti suoi compagni d’infanzia, quali Meo Romanutti, o Missoni, il grande stilista del patchwork, in gioventù campione di atletica leggera e probabilmente anche Lelio Luttazzi mister swing della canzone. Sto parlando di quei magnifici fusti, i muli, gli esponenti di quella “meglio giove
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Cesare non è stato solo un grandissimo allenatore per il record degli scudetti, ma una vera gloria dello sport italiano
E proprio a Comerio, la mia alma mater sportiva (quella culturale e nativa incancellabile è di pramsan strajè, parmigiano “esiliato” della Madonna della Steccata, l’Oltretorrente rosso delle gesta di Picelli, di padre Massimiliano Kolbe, di Giovannino Guareschi e della famiglia Minardi che mi ha fatto crescere), ho conosciuto Rubini. Avevo 16 anni, quasi un secolo fa. Eppure ricordo quando alla mia prima intervista, presentata la richiesta all’uomo nemico di Varese, mi fece una premessa con la sua bella voce tonante, ma senza voler schiacciare il piccolo cronista della Prealpina che gli stava davanti. “In America – mi ammonì – i giornalisti vengono sempre con le domande scritte”., Gli chiesi cinque minuti, tornai con le domande scritte, e da allora cerco di andare preparato alle interviste. Una buona domanda è una risposta migliore, e viceversa!
Chiamato dalla Gazzetta dello Sport a soli 19 anni, grazie all’enorme fiducia concessami da Marco Cassani al quale m’aveva segnalato il marchese Guidocarlo Gatti, campione superbo per fisico e ingegno mentale passato da Varese e poi utile a Roma e Pesaro, mi trovai spesso a dover fronteggiare questo colosso del basket con un talento innato per la comunicazione e il marketing, due muse ancora sconosciute. A volte, quando la squadra aveva bisogno di uno sprone, o vedeva allontanarsi lo scudetto, tentava la carta disperata dell’invettiva, mi teneva un’ora al telefono per inculcarmi quel “Salviamo il campionato!” che faceva nascere polemiche. La rivalità fra Milano e Varese è stato il lievito e il razzo vettore del boom.
Era difficile non subire il grande Cesare. Io ero e sono fatto a mio modo, non ho mai lavorato in pool come i miei colleghi che erano più bravi, più sicuri e dovevo cercare di battere ogni santo giorno. Ho amato tante maglie e tante persone essendo grato a chi mi ha fatto crescere, capito e magari letto. Forse come capo del basket della Gazzetta posso essere andato sopra le righe, e quella volta che scrissi che lui s’era messo di traverso a Bianchini per favorire Sandro Gamba, il suo braccio destro, nella gestione della nazionale, mi tirò un bel calcio nel sedere in mezzo alla gente di un aeroporto. Reduce da un’operazione all’anca per fortuna si reggeva su una stampella…
Nella lunga storia dei nostri rapporti personali c’è dunque un consiglio e un calcio, non so quali dei due sia stato il suo prezioso. Forse il calcio perché, parafrasando un altro grande mito del basket, Jim McGregor che Rubini ha cercato di superare col suo stile “Tu vò fa l’americano…”, quando prendi un calcio nel sedere avanzi di un metro!
Quale tutor di Gamba, Cesaree ha portato l’argento di Mosca e l’oro di Nantes, non mi sembra che successivamente ci sia stata simile continuità nella storia della nazionale. E’ stato responsabile delle squadre azzurre con Enrico Vinci, altro grande signore, consigliere della Federbasket pur essendo estraneo ai regolamenti, allergico alle scartoffie, ma cercano di garantire al sistema un minimo di logica sportiva per evitare il crack che verrà più tardi. Il suo Simmenthal che ha vinto fra l’altro la prima Coppa dei Campioni per l’Italia grazie anche al colpo di Bill Bradley, il più grande giocatore del basket Usa mai arrivati sui nostri parquet (che poi lo proporrà per la Hall of Fame), ha giocato anche la miglior pallacanestro della storia italiana, a parte quella successiva scientifica di Aza Nikolic. Mai dirgli che il suo corri e tira era come quello degli slavi, lui italiano vero, prima che anti-titino, sibilava: “ quei xe sciavj..”. Aggiungo: con snobismo e senza cattiveria.
Amicizie altolocate, grande importanza alla persona, rapporti schietti, rapidità decisionale da manager, un occhio unico nell’adocchiare il campione e una capacità unica nel condurre e portare a termine una trattativa. Insomma: un levantino vero nel senso buono. Basta ricordare l’episodio del cartellino di Brumatti, il suo ultimo preferito andatosene pochi giorni primo del suo maestro, strappato a Gorizia per 10 palloni. Aborriva gli schemi, la pallacanestro micragnosa, ha saputo farsi da parte quando ha capito che un suo fedelissimo, Sandro Gamba, come ex disegnatore meccanico della Borletti e un buon inglese poteva rivaleggiare alla pari con gli slavi e gli americani. Era giusto proteggerlo da “padrino” che però sa del gioco e delle persone.
Non ha avuto figli, ma tutti quelli della mia generazione un po’ lo sono stati. Alcuni si sentono orfani inconsolabili, altri si sono sentiti orfanelli fin dal suo ritiro, avvenuto troppo prematuro. Aut Caesar Aut Nullus. Ave Cesare, Morituri te salutant!