In meno di 24 ore due figure cardine del basket ci hanno salutato
di Enrico Campana
SIENA. Mentre scrivo, mi sento improvvisamente dentro una storia crudele del destino, oltre l’immaginazione, e ancor prima che lo sappia la federazione un amico che ha avviato per primo il ferale tam tam mi chiama per darmi la notizia della morte di Claudio Coccia. Nel giro di sole 24 ore, infatti, il Principe del basket e l’avvocato-manager, due cardini del boom del basket, se ne sono andati in punta di piedi, confinati un cono d’ombra gelido tanto più piccolo è il raggio di luce (riflessa) che beneficia e abbronza quei pochi. Forse i due padri fondatori del Grande Basket forse avevano deciso tacitamente questo copione del grande addio nello spettacolo di un silenzio assordante, ammonitore, fingendo in vita di essere grandi rivali per il gioco delle parti quando il modernismo del basket era legato a un giusto equilibrio fra la forza dei club e della Federazione raggiunta a fatica solo più tardi con Porelli e Vinci (e Petrucci). La fusione a freddo, l’orgine del primo e secondo boom del basket, è riuscita proprio grazie a queste due figure massime, l’uno un po’ Annibale Barca e l’altro un po’ Cicerone, Scipione l’Africano e il suo onomino imperatore, quel Claudio che se non erro venne dopo Caligola, si trovò circondato di donne di malaffare ma realizzò opere miliardi che dopo duemila anni ancora fanno da esempio, l’Avcquedotto Romano e il porto di Ostia
Ci hanno lasciato dunque due punte dell’espressione di un potere contrapposto, indispensabile se filtrato, mediato, riproposto in giuste dosi per riunire le energie del movimento e portarlo ad essere il secondo sport italiano, anche se adesso è in frenata. Sono state le punte dei poli dello sport manageriale e quello dello sport promozionale e ispiratore di grandi svolte, ovviamente parlo in quest’ultimo caso della Federazione che adesso, poveretta, dopo la gestione affidata al peso dei voti della Lombardia ha messo lì, tentando di riparare, il suo ultimo monumento per ragioni di facciata, quando il tessuto è sfilacciato burocratizzato, incline alla conservazione di se stessi (e dei propri privilegi?) e girare l’Italia per tagliare nastri, andare ai Panathlon ed essere ospite delle Tv e protagonista dei caroselli serva, ma solo se dietrto c’è il resto.
Magari anche loro, di lassù, stanno già riflettendo su questa implosione strisciante del sistema, ma adesso bonariamente, con le rispettive intelligenze finissime e i carattere da dux, in fondo pensate, hanno portato (e con stile e onore) il titolo di due imperatori della romanità, Cesare della stirpe Giulia e Claudio che oltre alle opere pubbliche è quello che vinse in Britannia allargando il dominio di Roma. Sì, sento un bisbiglio scendere dal cielo, stanno discutendo probabilmente sulla possibilità di essere ancora utili al basket perché ritrovi l’antico smalto, lo spirito modernista del loro amatissimo sport che paradossalmente nel ricambio generazionale si è incupito e – ancor peggio – opacizzato.
Si sta per alzare il sipario della Coppa Italia nella Torino che appartiene all’immaginazione di un altro grande imperatore, cesare Ottaviano detto Augusto, e davvero bisogna darsi un pizzicotto per rendersi conto che non si
E’ stato uno degli uomini simbolo del rinnovamento del basket
tratti di una fiction brutta: l’indomani mattina della scomparsa del Principe del Basket, all’alba Ornella Speranza, l’ex giocatrice romana vicina da molti anni all’avvocato Claudio Coccia, mentre tentava di svegliarlo, avendo programmato delle analisi mediche, ha trovato senza vita nel letto il suo compagno, col quale hanno condiviso “una vita travolti dall’insolita passione per il basket”.
Una fine lieve, speriamo, di grande dignità dell’avvocato che ha giustificato i miei giudizi giovanili a volte troppo avventato e poi apprezzato il mio coerente percorso, che mette la parola fine a una carriera di successo sia nella professione forense (portata avanti dal figlio, uno dei maggiori esperti di normative dello sport internazionali, al quale vanno le mie personali condoglianze e di Pianetabasket.i assieme alla sorella e agli altri famigliari) ma – non meno importante – grande manager dello sport, e il suo capolavoro di un’organizzazione sportiva moderna. Le sue innovazioni, invece, sono oltre il principio della fine della vita, le idee belle e innovatrici fanno storia, e a parte il capolavoro dell’organizzazione della Federazione, della nascita della Lega, degli americani, è stato colui del binomio con l’amico Giancarlo Primo, ovvero del boom della nazionale come frutto di un sistema organizzativo e di gioco italiano sulla cui scia è arrivato il binomio Rubini-Gamba con l’argento olimpico di Mosca e l’oro europeo di Nantes. Quando dico che Coccia, nel cui studio di fronte al Tevere mi sono recato spesso per prendere forza e coraggio quando ho lavorato a Roma in Tv, al tennis e al golf (mentre il basket mi bandiva, cosa ridicola e puerile più che grave…), è un mito basta chiamarlo “Il Grande riformatore”. E’ il padre dei playoff, un’invenzione americana, adottata da tutti gli sport, e una sua esclusiva sono invece i playout, una dizione i intelligente, di marketing per definire le tristezze delle retrocessioni, una pena punitiva che in America non esiste, perché là si ragiona sul merito, anche quello relativo, per cui non è vincente solo colui che arriva primo, ma anche quello che col 51 % di successi può fregiarsi di una winning season. Bisogna smetterla di considerare il vincente solo colui che non perde mai, quindi guardiamo con diffidenza da certi parvenu, e diamo atto invece a chi agisce con mezzi inferiori, e la capacità di superarsi, come è la storia attuale di Avellino che vince senza il pivot, i 28 punti di un nanerottolo di 1,65, meno dell’altezza media dell’homo italicus, e un allenatore bandito dal sistem,a esterofilo.
Miglior ricordo, o meglio profilo, l’avvocato del basket non poteva che essere tracciato da un esponente dello scudetto di Roma, quel Valerio Bianchini che sta lavorando splendidamente in un campo agro del sud, difficile, ricco di impegno e di orgoglio, mentre poteva essere l’uomo giusto della capitale che dopo aver detto “no agli slavi” si è affrettata a tornare sui sui passi, con mirabile coerenza.
“Quando arrivai a Roma – dice il Vate – ebbi la fortuna e fu fondamentale l’incontro con l’uomo simbolo del rinnovamento del basket. Ebbe la forza di portare il nostro sport fuori dal medioevo, da quella forma un po’ sovietica di gestione della Federazione di Decio Scuri. Giovane e brillante avvocato, divenne presidente a soli 33 a nni, un’operazione ispirata da Adolfo Bogoncelli, il presidente del Simmenbthal, per un nuovo tipo di pallacanestro di ispirazione americana. Ispirò a sua volta la nascita della Lega, eliminò la barriera doganale antipatica contro americani e nacque un nuovo gioco internazionale, e rispetto ai federali, burocrati che non mettevano mai fuori il naso dai propri uffici, andava a vedere il torneo del NIT a New York. Poi fu sempre il presidente del doppio americano, e altro capolavoro, ma non ultimo, portò nel basket i playoff. E basilare fu l’alleanza sacra con Giancarlo Primo, nel segno di un binomio fra un grande manager e un grande allenatore”.
Chiudo aggiungendo una coda alla mia testimonianza giornalistica, che credo sia più utile di un ricordo con un profluvio di aggettivi e meriti. Si tratta però di “cose” fondamentali alla comprensione della grandezza del personaggio nel contesto sportivo, e nelle sue convinzioni. Fu considerato, intanto, l’allievo preferito del grande Giulio Onesti, ma purtroppo aveva il torto di non avere nell’armadio la bandiera della Roma e della Lazio da sventolare per lievitare i consensi, come più tardo ha fatto qualcuno per infilarsi nel potere dello sport italiano e camparci una vita. Fosse andato al CONI, forse lo sport italiano avrebbe un ministero e l’autogestione e non dovrebbe essere il Fra Galdino che ogni anno risente degli umori dei vari Governi. Era poi tanto aperto come mentalità, che accettò anche di lavorare (meglio dire mettersi in gioco) come manager di un club, il Messaggero, dove però tutto era a dismisura e c’erano interessi di immagine e di ribalta più che di lunga programmazione. Terza cosa: ha creato la miglior classe arbitrale che il basket abbia mai avuto, nessuno dei suoi figurerebbe(come purtroppo alcuni illustri soggetti fra i verbali del processo finalmente messosi in moto a Reggio Calabria) e non solo ha fatto scelte indovinate, ad esempio Maurizio Martolini grande capo, in senso tecnico e morale, dei “grigi” ma quando gli arbitri ai azzardavajo a fare delle rivendicazioni, ricorda Ciccio grotti, uno dei due fischietti del famoso giallo di Livorno-M ilano per lo scuetto, diceva sempre “altro che pagare gli arbitri, altro che fare richieste, quelli dovrebbero pagare me per la fortuna che hanno avuto”