di Michele Pinassi*
SIENA. Un milione di Euro. A tanto ammonta la sanzione comminata a Facebook dal Garante della Privacy italiano per la vicenda di Cambridge Analytica. Il Garante ha stabilito, infatti, che l’uso dell’app “Thisisyourdigitalife” da parte di 57 utenti italiani (così pochi?) aveva aperto la possibilità di recuperare i dati di ulteriori 214.077 utenti della piattaforma social, senza alcun tipo di informativa in merito. La nota del Garante ci tiene comunque a precisare che “I dati non erano comunque stati trasmessi a Cambridge Analytica” e che la sanzione è stata erogata per la violazione del Codice della Privacy, il D.lgs. 196/2003 (non del GDPR).
Poca roba, spiccioli, per un gigante come Facebook che, solo nel 2017, ha fatto un utile netto di oltre 20 miliardi di $. Anche se la nota diffusa dal Garante sottolinea che “La somma tiene conto, oltre che della imponenza del database, anche delle condizioni economiche di Facebook e del numero di utenti mondiali e italiani della società.”
Tuttavia non è l’importo della sanzione a interessarmi particolarmente quanto l’aspetto, decisamente più interessante e preoccupante, della miopia di intervenire con agenzie nazionali (come il Garante della Privacy) su questioni di interesse mondiale come il caso Cambridge Analytica.
Non dimentichiamo che le realtà come Facebook sono enormi contenitori che raccolgono, gestiscono e conservano i nostri dati su scala planetaria per miliardi di utenti, per un tempo indefinito. Che solo grazie a importanti iniziative normative come il GDPR è stato finalmente possibile aprire qualche squarcio nella cappa che oscura ciò che viene fatto, quotidianamente, con questi dati. Finalmente, infatti, posso esercitare alcuni importanti diritti, come il diritto di scaricare tutti i miei dati in possesso a Facebook, e posso chiedere di cancellarli definitivamente. Posso pure decidere chi può vedere cosa, con un accettabile livello di granularità, e impostare livelli di privacy adeguati alle mie esigenze o sensibilità.
La cosa migliore, ovviamente, rimane la consapevolezza di ciò che forniamo a Facebook. Del valore dei dati che gratuitamente concediamo al grande social network e delle potenziali conseguenze che derivano dal nostro comportamento.
C’è chi risponde “eh, tanto non ho niente da nascondere” o, rassegnato, “ormai sanno già tutto di me” ma queste non sono motivazioni accettabili per rinunciare ad esercitare il nostro sacrosanto diritto di mantenere il controllo sulle nostre vite digitali, che ormai sono sempre più mescolate alle nostre vite reali.
Se l’accesso potenziale ai dati di oltre 200.000 utenti vale 1 milione di €, poco meno di 5€ a utente, non mi sorprenderebbe scoprire che pratiche simili sono già state attuate anche da altri soggetti, complice la difficoltà di scoprirlo e la relativa facilità con cui si possono cancellare o confondere le tracce.
In questo bollente fine giugno 2019, questa blanda sanzione e gli ancor più blandi effetti sulla società e le sue abitudini di uno scandalo come Cambridge Analytica possono far tirare un sospiro di sollievo alle grandi multinazionali del mondo dei big data, che fanno lucroso business sui nostri dati personali.
Per noi utenti, credo che rimanga giusto la consapevolezza di una società dagli equilibri profondamente sbilanciati, con amministrazioni pubbliche deboli o comunque incapaci, per motivi politici o tecnici, di agire efficacemente per la tutela dei nostri diritti. Diritti che, purtroppo, molti cittadini ancora stentano a comprendere.