di Michele Pinassi*
“Il concetto di privacy che ho io non è lo stesso che ha mio padre ed è diverso anche da quello di una ragazzo di quattordici anni. Sei anni fa nessuno voleva che le proprie informazioni personali fossero sul web, oggi il numero delle persone che rende disponibile il proprio cellulare su Facebook è impressionante”. (Mark Zuckerberg)
SIENA. “The future is private”. Con questo slogan è stata aperta l’edizione 2019 della Facebook Developer Conference “F8” a San Jose, California. E’ la conferma di un cambiamento importante nella società che, dopo la grande ubriacatura del tutto a portata di tutti, ha visto l’altra faccia della medaglia della vita nei social: licenziamenti, hate speech, bullismo, persecuzioni.
Facebook, lo ricordo, è essenzialmente un contenitore vuoto che gli utenti, giorno dopo giorno, foto dopo foto, video, aggiornamenti di stato e condivisioni… alimentano, soddisfacendo da un lato la voglia di esserci e farsi vedere e, dall’altro, quello di sbirciare nelle vite altrui. La sfida della Facebook Inc. è riuscire a mantenerlo accattivante e fruibile, permettendo alla piattaforma di continuare a raccogliere dati su di noi e tracciare un profilo sempre più preciso (e non è un caso se proprio la vicenda Cambridge Analytica è stato uno degli argomenti trattati) su cui fare utili.
Insomma, il prodotto di Facebook siamo noi. E come molte altre piattaforme che prima di Facebook hanno visto un successo vertiginoso e un altrettanto vertiginoso tracollo, Zuckerberg ha la piena consapevolezza che per restare sull’hype è necessario assecondare le esigenze degli utenti e, come ben scritto nelle condizioni d’uso della piattaforma, “Il nostro obiettivo è dare alle persone il potere di creare community e rendere il mondo più unito […] le persone creano community su Facebook solo se si sentono al sicuro“. Nel 2019, in piena post-socialsbronza, gli utenti chiedono maggiore tutela per i propri dati, che siano foto, video o semplici pensieri postati sulla bacheca. E Facebook, quindi, si adegua.
Sarà quindi interessante vedere come Facebook favorirà le interazioni “private” per mantenere la sua quota di mercato nel campo dei social, soprattutto adesso che Google Plus è stato abbandonato dal “Big G” di Mountain View. Già da qualche tempo, peraltro, cambiamenti di questo tipo sono stati percepiti da molti utenti: è aumentata l’interazione con chi l’algoritmo ritiene “affine” e “vicino”, a scapito degli altri. Possiamo quindi immaginare che saranno incentivati gli strumenti come i Gruppi e le Pagine, che permettono interazioni tra persone affini, per, contemporaneamente, limitare sempre più l’interazione tra sconosciuti o non affini.
Sicuramente, tenendo bene a mente che Facebook è una società e in quanto tale deve generare profitto per gli azionisti, la parola finale su ogni possibile modifica la faranno gli utenti, i prosumer (neologismo coniato dall’unione di producer+consumer), che reagiranno alle modifiche attuate sul portale determinandone le caratteristiche.
Se non altro, questa decisione riporta prepotentemente sulla scena politica internazionale il dibattito sui dati personali e la loro gestione e tutela. Se l’Unione Europea ha dimostrato, con il General Data Protection Regulation (GDPR), di aver preso atto del rischio sull’uso indiscriminato dei nostri dati e metadati, sull’aspetto pratico i buoni propositi spesso naufragano miseramente: è difficile, difficilissimo, quasi impossibile riuscire a tenere traccia di chi, di cosa, di come e dove sono i nostri dati! In particolare sui social network, tutelare la propria riservatezza è ormai praticamente impossibile, a meno ovviamente di non usarli. E tuttavia basta avere uno smartphone per essere già tracciati, spesso senza neanche averne la consapevolezza.
Fuori dai contesti social, come utenti abbiamo a nostra disposizione delle “armi” per difenderci e difendere il nostro diritto alla riservatezza, come la crittografia forte. Anche se i governi di tutto il Mondo, soprattutto quelli più autoritari, cercano in ogni modo di boicottare questi strumenti per continuare a mettere il naso nei nostri affari (e mai come in questo momento lo stanno facendo!), nel mare magnum della Rete è ancora possibile difendersi: tanto per dare qualche riferimento, sul sito Privacytools è disponibile un catalogo aggiornato di buone pratiche e di strumenti che tutti gli utenti sensibili al tema dovrebbero adottare.
Personalmente ritengo tale diritto sacrosanto, perché – come non accetterei mai che qualcuno mettesse le mani nella mia cassetta della posta – non accetto neppure che qualcuno metta il naso nella mia casella di posta elettronica o che acquisti il mio “profilo” senza il mio esplicito consenso. Soprattutto perché non ho niente da nascondere!
*www.zerozone.it