"A chi appartengono realmente i dispositivi digitali che utilizziamo quotidianamente?"
di Michele Pinassi*
“Mai fidarsi di un computer che non è possibile gettare dalla finestra” (Steve Wozniak)
SIENA. La vicenda sui requisiti hardware richiesti dall’ultima versione del famoso sistema operativo di Redmond, Windows 11, ha rilanciato un questione che, negli anni, non si era mai del tutto risolta: a chi appartengono realmente i dispositivi digitali che utilizziamo quotidianamente?
La domanda potrebbe sembrare banale e, per qualcuno, dalla risposta scontata, ma la realtà è ben diversa e il futuro si prospetta anche peggiore.
Windows 11, tra i requisiti minimi di sistema indicati, richiede sul PC la presenza del TPM, Trusted Platform Module: Lo scopo del TPM è l’aumento della sicurezza informatica: ogni chip è dotato di una coppia di chiavi crittografiche uniche, che lo rendono univocamente identificabile, e di un motore per la crittografia asimmetrica per la criptazione dei dati. (Wikipedia)
In pratica, il TPM sembra essere una tecnologia DRM – Digital Right Management – per poter legare il software in modo esclusivo alla macchina autorizzata a usarlo. Questo garantisce che il software che eseguiamo sia lecito e autorizzato, ma anche che eventuali programmi assolutamente leciti ma non espressamente autorizzati potrebbero non poter essere eseguiti.
Senza voler scadere in complottismi, ho l’impressione che la sempre valida scusa della “sicurezza” (per chi?) serva soprattutto per ridurre gli spazi di libertà nell’uso degli strumenti digitali che utilizziamo nel quotidiano: un chip crittografico che identifica univocamente il nostro sistema e che permetterà di “certificare” la bontà di certe applicazioni, a discapito di quelle potenzialmente malevole, mette nelle mani del gestore di questa tecnologia l’enorme potere di decidere cosa è meglio per noi e cosa no.
La tendenza, del resto, è proprio questa: chiudere gli utenti dentro un walled garden sicuro e protetto, dove un attento gestore (a fronte di un corrispettivo economico, ovviamente) decide cosa è buono e cosa non lo è. Decisioni che potrebbe essere presa su basi tecniche ma anche politiche o meramente economiche, capaci d’influenzare le abitudini e la quotidianità di milioni di utenti, fuori dal controllo democratico.
La strategia è sempre la stessa: inizialmente si punta sulla massima diffusione di un certo prodotto, in ogni modo possibile e poi, man mano che diventa “indispensabile”, si inizia a stringere le maglie imponendo limiti, restrizioni, vincoli o, semplicemente, aumentando i costi di licenza. Tecnicamente, si chiama “lock-in“. È una pratica ormai piuttosto diffusa nel mondo ICT, che si concretizza attraverso l’uso di piattaforme e software closed-source, formati proprietari, DRM, hardware chiuso.
L’ultimo baluardo di libertà digitale sembra essere il personal computer. Che, insieme a sistemi operativi e applicazioni non legati obbligatoriamente al cloud (PAAS, SAAS), ci permettono di poterne usufruire come e quando vogliamo. Un baluardo sotto attacco, almeno da quando la grande diffusione della Rete in ogni ambito della nostra quotidianità ha reso possibile la “cloudizzazione” di tutta una serie di risorse, dal software al sistema operativo. La tendenza, quindi, è lasciare sempre meno nelle mani dell’utente e sempre di più delegare la gestione e il controllo degli strumenti software nelle mani dei fornitori.
Se da un lato questo semplifica la vita all’utente, che non deve più preoccuparsi di antipatiche questioni come problemi hardware, installazioni, incompatibilità, malware… dall’altra toglie ampie fette di libertà di utilizzo dello strumento che abbiamo acquistato (ma che sempre meno “possediamo”). Compresa, ovviamente, la gestione e tutela dei nostri dati: quando tutto ciò che facciamo viene inviato a server remoti (leggasi: “cloud”), ne perdiamo comunque il controllo. E il rischio è che, a fronte di un data breach, questi dati – che ci riguardano molto intimamente – possano finire nelle mani sbagliate.
Fino a che il cosiddetto “ferro” rimane nelle nostre mani di utilizzatori finali, abbiamo la possibilità di scegliere quale sistema operativo usare (Windows o GNU/Linux?), quali applicativi installare (MS Office o LibreOffice?) e, anche, avere la possibilità di guardare un film che ci ha prestato un amico. Ci sarà la libertà anche di ribellarsi a leggi e normative ingiuste o eccessivamente limitanti, proprio come quelle sul copyright, che limitano la diffusione di conoscenza e cultura, sostenendo la moderna “lotta di classe” tra chi può economicamente permettersela e chi no.
Attenzione, ché il rischio di perdere molte delle nostre libertà digitali sta interessando anche la stessa Rete Internet, in gran parte ormai da tempo fortemente controllata da governi e istituzioni non sempre trasparenti. Interventi censori che hanno prodotto soluzioni decentralizzate e alternative, come TOR, che garantiscono ai cittadini che subiscono la censura di pesanti regimi repressivi (come la Cina) di poter comunque accedere a informazioni che sarebbero altrimenti loro precluse.
Cedere al ricatto delle grandi corporation del settore ICT significa, essenzialmente, limitare le nostre libertà e i nostri diritti civili. Tra cui c’è anche il diritto di ribellarsi, di reagire, di intervenire per difendere la nostra Democrazia.
Evviva il PC, quindi. Evviva il software open source, le piattaforme libere e la Rete senza vincoli e restrizioni. Evviva la libertà.
*www.zerozone.it