di Michele Pinassi*
“Ho sempre trovato strano che una nazione la cui prosperità è basata sul lavoro a basso costo degli immigranti sia così incessantemente xenofoba” (Gore Vidal)
SIENA. Il gruppo hacker israeliano ‘Hayalim Almonim’ –Soldati anonimi– ha attaccato il sito web dei ‘Patriotic Brigade Knights‘, un gruppo suprematista legato al Ku Klux Klan. Oltre al classico defacement, che consiste nel sostituire la grafica originale con un altro messaggio di rivendicazione, il gruppo hacker ha provveduto a diffondere informazioni relative al proprietario del sito stesso.
A quanto si apprende dalle informazioni diffuse dalla stampa, l’hack ha rivelato l’identità del presunto leader delle Brigate Patrottiche, un texano di nome Kevin James Smith. Sempre a quanto risulta, sarebbero state diffuse informazioni come il numero di telefono, l’indirizzo, la fotografica. Risulterebbe inoltre che questa persona sia iscritta nel Texas Public Sex Offender Registry per aver molestato una bambina di 14 anni.
“Patriotic Brigade Knights of the Ku Klux Klan: SPLC classifies it as an active Klan group headquartered in Gladewater, Texas, with a chapter in South Carolina. The group’s website says that “the White, Anglo-Saxon, Germanic and kindred people to be God’s true, literal Children of Israel” and that “America was founded as a White nation.” A self-identified Kleagle (recruiter) for the South Carolina chapter actively seeks new members in the Spartanburg area and posted material to his blog in 2018.” si legge nel testo del defacement, insieme alla foto e le altre informazioni relative al presunto proprietario.
Non è la prima volta che gruppi hacker effettuano azioni di “giustizia morale” ai danni di organizzazioni criminali, razziste, violente o pedofile. Molte campagne di Anonymous sono state indirizzate a combattere contro situazioni di violenza e odio razziale perpetrate da Aziende, Istituzioni o Governi, come ad esempio il supporto alla campagna #BlackLivesMatter.
Azioni che ci pongono davanti a un dilemma morale, portandoci a chiedere se possiamo accettare gruppi hacker in azione talvolta violando le leggi e scavalcando le Istituzioni preposte. Se, insomma, il fine giustifica il mezzo. Anche se il mezzo, come in questo caso, è una evidente violazione di un sito web senza il consenso del proprietario.
Atti di disobbedienza civile necessari, secondo il mio modesto parere, a sollevare un velo d’ipocrisia che sta dietro alla cosiddetta “libertà di espressione“, giustificando messaggi d’odio, razzisti, violenti e umilianti. Un po’ come avvenuto di recente durante le presidenziali USA, con il ban dai social di Trump e la sospensione di Parler, se non fosse che – in questo casi – ad agire sono state potenti entità commerciali, che capitalizzano sui dati e le attività dei loro utenti.
È un confine labile quello su cui camminiamo, che da una parte vede la libertà di espressione, fondamentale per la Democrazia, e dall’altra la necessità di tutelare e difendere il rispetto per ogni essere umano, di qualunque etnia esso sia. Come per il paradosso della tolleranza enunciato da Karl Popper: essere intolleranti nei confronti dell’intolleranza è l’unico modo per preservare la natura tollerante di una società aperta.