Anche il mondo finanziario si affaccia al mondo dei big data per valutare la reputazione dei potenziali debitori?
di Michele Pinassi*
“Il passato è l’elemento più fragile: sbiadisce sempre.
E il più stabile: non cambia mai” (Alessandra Paganardi)
SIENA. Tra le tante innovazioni che ha portato la Rete e il WWW, c’è l’indelebile perdurare della nostra memoria cybernetica. Tanto che, a quasi 30 anni dall’invenzione del Web, anche il mondo finanziario si affaccia (e voglio essere ottimista, pensando che ancora non lo abbia fatto) al mondo dei big data e le sue potenzialità per valutare la reputazione dei potenziali debitori.
“The rise of the internet permits the use of new types of non-financial customer data, such as browsing histories and online shopping behavior of individuals, or customer ratings for online vendors.” – Financial Intermediation and Technology:What’s Old, What’s New?, Arnoud Boot, Peter Hoffmann, Luc Laeven, and Lev Ratnovski, IMF Working Papers.
Lo dice senza mezzi termini il working paper “Financial Intermediation and Technology:What’s Old, What’s New?“, pubblicato dall’International Monetary Fund -Fondo Monentario Internazionale- e sono probabilmente tra gli ultimi grandi attori a scoprire le potenzialità dei big data.
Possiamo considerare la cronologia dei siti web che abbiamo visitato un elemento di valutazione della nostra capacità di restituire un debito? Così come le nostre abitudini di acquisto nei canali di e-commerce e le valutazioni dei venditori, secondo l’articolo pubblicato sul sito del Fondo Monetario Internazionale, lo è.
In una giornata normale, visito più o meno dai 300 ai 400 siti web. Si va dalle pagine dei quotidiani on-line a quelle più specifiche relative alla mia attività lavorativa. Ci sono poi i momenti di svago, le ricerche per motivi personali o professionali, acquisti, vacanze, social networks…
Inutile correre a ripulire la cronologia del browser: quella potrà salvarci da qualche imbarazzo nei confronti di familiari, amici o colleghi troppo curiosi. Ma non è quella la cronologia a cui si riferisce l’articolo: ogni pagina web che visitiamo, o URL, contiene molto probabilmente un tracker. Può essere lo snippet di Google Analytics, un font carino caricato da Google Fonts, il codice di Facebook per avere il pulsante “Mi piace!“, un tweet incorporato o una delle mille altre tecnologie sviluppate anche per mantenere traccia di tutti i nostri movimenti sul WWW. Oppure, se utilizziamo il nostro browser Chrome o il nostro tablet o smartphone Android, ad esempio, con tanto di sync e account Google configurato, tutte le pagine web che visitiamo vengono comunicate anche a Google. Non ci credete? Cliccate qui: myactivity.google.com/
È tutto legale, chiaramente, perché abbiamo letto e accettato la privacy policy che ci è stata mostrata prima di qualsiasi azione. Non ve ne ricordate? Forse perché non l’avete letta bene e probabilmente neppure compresa, passando direttamente a cliccare su “Accetto” (Avete letto l’articolo ““I have read and agree to the Terms” è la più grande menzogna del web“?): uno sguardo al sito web Terms of service; Didn’t read può aiutarvi a chiarire meglio la situazione.
Comunque sia, ormai è tardi per cancellare il passato. Un passato che, potenzialmente, può avere conseguenze sul nostro futuro (e già accade, ad esempio, quando veniamo valutati da un head hunter: verificare le nostre attività sul web, social compresi, è ormai prassi consolidata). Anche se la normativa europea GDPR ha messo un freno alla pratica di accumulare compulsivamente dati, in realtà non ci è dato sapere se i nostri dati verranno davvero cancellati o, semplicemente, spostati un po’ più in là. Considerando, inoltre, che sono già ampiamente utilizzati per scopi pubblicitari, non sorprenderebbe lo scoprire che qualcuno, da qualche parte, li conserva gelosamente.
Il sito web Social Cooling è un buon punto di partenza per comprendere a pieno i rischi di una società basata sui big data.
Ciò che possiamo fare è provare a modificare le nostre abitudini da oggi, iniziando a proteggerci per limitare i dati che forniamo a queste grandi corporations (Google è la più attiva, in questo settore). Da tempo sul web hanno iniziato a circolare guide per de-googlizzare la nostra presenza cyber: è più facile di quanto pensiamo!
Un buon punto di partenza per conoscere gli strumenti a difesa della nostra privacy è il sito web privacytools.io. Per iniziare, comunque, si può:
- utilizzare Firefox come browser web preferito, installando l’estensione Privacy Badger della EFF per bloccare i trackers conosciuti;
- installare l’estensione decentraleyes per evitare l’uso delle CDN: invece di caricare i contenuti da remoto ed essere tracciati, sfrutta le risorse locali;
- passare a DuckDuckGo come motore di ricerca predefinito;
- sulla rete casalinga si può usare PiHole per intercettare e bloccare la pubblicità e le richieste dei trackers da tutti i nostri dispositivi;
“La privacy è il diritto a essere imperfetti.” cit.
*www.zerozone.it