di Silvana Biasutti
SIENA. Io lo ricordo così, un po’ come ricordo Mario Formenton. Uomini che avevano negli occhi il luccichio del mare, accomunati nel mio ricordo dai luoghi dell’editoria.
Quindi la vela, senza ostentazioni. Ma una volta, nell’ufficio della sede in via Sicilia – quello che usavamo anche noi milanesi, quando piombavamo a Roma per qualche incombenza straniante e impellente, dall’elegante sottomano che stava sulla scrivania ho visto sbucare l’angoletto di un cartoncino e non ho saputo resistere: ho tirato ed è uscito uno spesso rettangolo – un cartoncino dovizioso di color avorio -: era l’invito di un Re (!) al ricevimento nell’ambasciata romana, ovviamente a Piero Ottone. Lui era l’uomo con le frequentazioni più impegnative, e più eleganti.
L’unico vero incontro di lavoro con lui, al quinto piano del mitico palazzo di Segrate, per una campagna di Panorama, è avvenuto quando P.O. era direttore generale dei periodici Mondadori, un ruolo che ricoprì non a lungo, dopo essere stato direttore del Corriere della Sera. Ricordo che, provenendo da un’agenzia di pubblicità, ero consapevole dell’abisso che separava noi pubblicitari dal mondo del giornalismo; un vallo in cui giaceva la consapevolezza dell’irrinunciabile valore della pubblicità come sostegno alla stampa e all’informazione in generale. Non che noi pubblicitari intendessimo montarci la testa; no, noi eravamo gente che fa un lavoro divertente e appassionante, ma difficile; perché la pubblicità (ormai imbastardita dai rapporti con la pubblica amministrazione) aveva un ruolo delicatissimo, quello di essere “la verità ben detta” (secondo la sintesi di McCann), senza blandire né incensare, usando anche sarcasmi che possono incidere sulla concorrenza. Così, dovendo fare campagna contro la stampa periodica rivale, il mio gruppo di lavoro aveva preparato un annuncio pepatissimo che io stavo presentando all’elegante e sobrio direttore generale.
Chi è stato al quinto piano di palazzo Niemeyer a Segrate sa che c’è una gran luce, una luminosità accresciuta dai riflessi dei due laghi sottostanti che rende la sala consiglio – così chiamata allora – una specie di set che a me faceva venire voglia di misurarmi con chi mi stava di fronte, rendendomi un po’ spavalda. Tuttavia aver di fronte Piero Ottone mi intimidiva un po’: in fondo era quello che aveva licenziato Montanelli… La presentazione era delicata, perché facevamo la guerra a L’Espresso, e io non sapevo ancora che – proprio come accade in politica – i due periodici facevano solo finta di essere rivali, poi però i giornalisti e le proprietà andavano a cena insieme. La bordata contro il periodico concorrente era addirittura irridente e P.O. arrotò la erre, mi parve più del solito, dicendomi che “le figure vanno bene, ma le parole scritte vanno cambiate”. Riduceva così un bella campagna a una foto con didascalia: insomma quanto di più lontano dal concetto di pubblicità. La campagna rimase ormeggiata nel nostro archivio e si scelse qualcosa di più blando e un po’ melenso; Ottone rimase ancora brevemente a fare il direttore generale e poi andò a Roma. Ma io non ho mai dimenticato quel tardo mattino e le sue erre arrotate, né la sua eleganza che riusciva a essere anche alla mano, molto gradevole come le sue camicie sempre perfette.
Ora anche lui è entrato a far parte di questa mandata di novantenni super, che hanno segnato un bel pezzo del secolo breve e anche un po’ di quello corrente: sciolti gli ormeggi da Camogli, proprio nel giorno di Pasqua, veleggerà chissà dove… buona navigazione, Piero Ottone.