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Premio Viareggio-Rèpaci: i libri vincitori

Scelti Mari (narrativa), Villalta (poesia), Lavagetto (saggistica)

VIAREGGIO. La giuria ha concluso alle ore 14,45 le votazioni per determinare i vincitori dell’edizione 2011. L’ampia, attenta e cordiale discussione comparativa, con rilettura dei brani più significativi di ciascuna opera, dei libri entrati nelle terne finaliste, tutti di eccellente qualità e grande interesse, ha maturato le scelte che seguono:

per la narrativa, tra ‘Privati abissi’ di Gianfranco Calligarich (Fazzi), ‘Troppa umana speranza’ di Alessandro Mari (Feltrinelli) e ‘Il signor Inane di Lia Tosi (Pagliai), il libro più votato è risultato quello di Alessandro Mari;

per la poesia, tra ‘L’asso nella neve’ di Anna Maria Carpi (Transeuropa), ‘Poesie dalla scala C’ di Paolo Lanaro (L’obliquo) e ‘Vanità della Mente’ di Gian Mario Villalta (Mondadori) il libro più votato è risultato quello di Gian Mario Villalta;

per la saggistica, tra ‘Di vita si muore’ di Nadia Fusini (Mondadori), ‘Quel Marcel!’ di Mario Lavagetto (Einaudi) e ‘Sillabario della Memoria’ di Federico Roncoroni (Salani) il libro più votato è risultato quello di Mario Lavagetto.

La premiazione avverrà venerdì 26 agosto alle ore 20,45 a Viareggio durante la manifestazione “A cena con i finalisti e i vincitori” sulle terrazze del Bagno Balena.

le schede dei vincitori

Per la narrativa

Alessandro Mari, Troppa umana speranza, Feltrinelli  Alessandro Mari è nato nel 1980 a Busto Arsizio. Si è laureato con una tesi su Thomas Pynchon. Ha cominciato giovanissimo a lavorare per l’editoria, come lettore, traduttore e ghostwriter.

Il libro “Colombino si guardò i piedi, infilati nei calzettoni di lana e negli zoccoli. Tre passi, e tutto sarebbe cominciato. Tre passi soltanto. Perché al primo si è solo partiti, al secondo si può ancora rinunciare, mentre al terzo è tardi, resta solo il tempo di guardarsi indietro.” Prima metà del diciannovesimo secolo. Sullo sfondo di un’Italia che non è ancora una nazione, quattro giovani si muovono alla ricerca di un mondo migliore… Un grande romanzo sulla giovinezza. La giovinezza del corpo, della mente, di una nazione.

Per la poesia

Gian Mario Villalta, Vanità della mente, Mondadori Gian Mario Villalta (1959, Pordenone) ha esordito come poeta, presentato da Antonio Porta su “Alfabeta” nel 1986. I suoi testi lirici sono pubblicati in plaquette, riviste e antologie. Altrettanto intensa la sua attività di studioso e di critico. Con Stefano Dal Bianco ha curato il Meridiano Le poesie e prose scelte di Andrea Zanzotto. Ha pubblicato Tuo figlio (Mondadori 2004) e Vita della mia vita (Mondadori 2006). È Direttore artistico di Pordenone legge.

Il libro Il primo dato che emerge, e di evidente efficacia, nell’intero percorso di questo libro, è la vitalissima varietà di temi che lo compone. Gian Mario Villalta lavora su tracce di realtà legate all’esperienza e alla riflessione, racconta l’amore e osserva il paesaggio nel suo mutare, descrive la domestica gioia della festa ed esprime il dolore legato agli affetti. Tocca vertici di nitida asciuttezza lirica nelle splendide prose sui piccoli animali, dove circola un senso acuto di pietà, di fronte all’orrore e alla crudeltà di cui questi esseri sono vittime.


Per la saggistica

Mario Lavagetto, Quel Marcel! Frammenti dalla biografia di Proust, Einaudi  Mario Lavagetto insegna Teoria della letteratura all’Università di Bologna. Ricordiamo tra i suoi libri: La gallina di Saba (Einaudi 1974, 1989), L’impiegato Schmitz e altri saggi su Svevo (Einaudi 1976, 1986), Quei piú modesti romanzi (Garzanti 1979), Freud, la letteratura e altro (Einaudi 1985, 2001), Stanza 43. Un lapsus di Marcel Proust (Einaudi 1991), La cicatrice di Montaigne. Sulla bugia in letteratura (Einaudi 1992, 2002), La macchina dell’errore (Einaudi 1996), Palinsesti freudiani (Bollati Boringhieri 1997) e Dovuto a Calvino (Bollati-Boringhieri 2001).

Il libro Il narratore della Recherche, ha detto Deleuze, è simile a un ragno in agguato ai margini della sua tela che vibra, gli trasmette messaggi discontinui, gli indica la presenza di una preda: controfigura dell’uomo che trascorre lunghi anni in una camera foderata di sughero, lontano da quella realtà di cui cerca di registrare i segnali, anche i piú impercettibili, con il solo strumento – la scrittura – di cui dispone. Chi osserva la vita quotidiana di Marcel Proust e riconosce in essa alcuni dei germi che nella Recherche verranno metabolizzati e sottoposti a un radicale disorientamento, ha spesso l’impressione di assistere al formarsi progressivo, sui margini, di una glossa smisurata, antropofaga e invasiva.

Le motivazioni dei premi 2011

PREMIO INTERNAZIONALE VIAREGGIO-VERSILIA

[a cura di Franco Contorbia]

Yves Bonnefoy

La giuria del premio Viareggio-Rèpaci ha deliberato all’unanimità di assegnare il premio internazionale per l’anno 2011 a Yves Bonnefoy per il complesso della sua opera in versi e in prosa. Di Bonnefoy la giuria ha inteso, e intende, segnalare le eccezionali qualità inventive e la non comune statura intellettuale che ne hanno fatto uno dei protagonisti assoluti della cultura francese ed europea degli ultimi sessant’anni, tra secondo Novecento e nuovo millennio. A far data dal Traité du pianiste (1946) e da quel capitale punto di snodo che è stato Du Mouvement et de l’Immobilité de Douve (1953, ma pubblicata per la prima volta in Italia nel 1969 nella versione di Diana Grange Fiori e con una introduzione di Stefano Agosti) e via via attraverso una serie di libri decisivi tra i quali sembra necessario ricordare almeno Hier régnant désert (1958), Pierre écrite (1965), Un rêve fait à Mantoue (1967), Dans le leurre du seuil (1975), Ce qui fut sans lumière (1987), Début et fin de la neige (1991), e, tra gli ultimi e postremi, La vie errante (1993), Les planches courbes (2001), La longue chaîne de l’ancre (2008), la figura e l’opera di Yves Bonnefoy hanno assunto un sempre più riconoscibile rilievo internazionale nel campo della letteratura (poesia, narrativa, saggistica), della filosofia, della critica delle arti figurative. La profondità e la latitudine della quête poetica e conoscitiva di Bonnefoy, alla quale il primo viaggio in Italia del 1950 e i molteplici ‘ritorni’ successivi hanno offerto un fondamentale orizzonte di riferimento e, insieme, uno sfaccettatissimo, multivario oggetto di riflessione e di rappresentazione, hanno finalmente reso più pervio il rapporto della critica e dell’editoria del nostro Paese con il sommo tra gli italianisant contemporanei. Di tale doveroso e non importa se un po’ tardivo riconoscimento il Meridiano dell’Opera poetica di Bonnefoy curato da Fabio Scotto nel 2010 segna un importante punto d’approdo, peraltro inseparabile dalla fittissima rete di relazioni che stabilmente legano Bonnefoy all’Italia e l’Italia a Bonnefoy, e che la strenua fedeltà a Leopardi del grande poeta francese esemplarmente ricapitola e sigilla. Proprio il nome e l’immagine di Leopardi possono offrire un equivalente non incongruo, quasi una sorta di correlativo oggettivo, di una forza di investigazione che involge, a un tempo, poesia e pensiero, ideologia e linguaggio, sfondando i tradizionali confini disciplinari e di genere. Se si aggiunga che, senza mai stabilire un rapporto troppo radente con l’universo della politica, Yves Bonnefoy non si è sottratto, nel corso della sua operosissima esistenza, a nessuno degli appuntamenti cruciali che hanno contrassegnato, dalla Liberazione a oggi, la vita civile francese ed europea, all’assegnazione del premio internazionale sembra legittimo guardare come a uno dei momenti più alti e felici nella lunga vicenda del premio Viareggio.”.

NARRATIVA

[a cura di Piero Gelli]

Alessandro Mari, Troppo umana speranza, Feltrinelli

Quello che sorprende in questo romanzo ‘storico’ – storico sì sulla linea italiana che va da Manzoni, a Nievo ai romanzi del troppo dimenticato Alianello, e cioè di una narrativa il cui sfondo è la preistoria e storia di un paese, tra Provvidenze, speranze e disillusioni – è l’astuzia, il candore con cui il giovane Alessandro Mari, alla sua prima sorprendente prova, riesce a reinventarla questa storia. Ho detto astuzia, astuzia letteraria, si intende, nel senso che questo suo è un romanzo storico degradato, un’epica rovesciata, ma non per questo meno umana e appassionante, anzi, con dei personaggi che attingono all’innocenza dei personaggi di Ermanno Olmi o all’ebetudine, al tocco di follia di quelli di Ermanno Cavazzoni, come il protagonista, Colombino, di mestiere “menamerda”. Epica degli umili, come insegna Manzoni, mi si può dire, meglio direi di iperrealismo o di relismo basso-mimetico, e ricordo il taglio antiretorico, da conocchiale rovesciato con cui è visto Verdi, musicista sconosciuto prima, poi, coi primi successi, sussiegoso. Devo stringere, costretto dai tempi di una premiazione conviviale. Alessandro Mari è piaciuto, è stato votato quasi all’unanimità, per la sua forza inventiva, la capacità di recuperare un genere considerato da sempre in estinzione, di recuperarlo e reinventarlo con gli strumenti e le strutture più aggiornate di certa narrativa del Novecento; ma soprattutto per la sua fiducia attestata dall’impegno nel futuro del romanzo, della narrativa, del libro, insomma, Perché infine è di questo che si parla.”.

POESIA

[a cura di Pierluigi Cappello]

Gian Mario Villalta, Vanità della mente, Mondadori

La Giuria ha rilevato la grande qualità delle tre opere finaliste. In particolare, del libro di Anna Maria Carpi, L’asso nella neve (Transeuropa) è stato apprezzato il fine lavoro di rastremazione linguistica, mentre della raccolta di Paolo Lanaro, Poesie dalla scala c (Edizioni l’Obliquo) ha colpito la pronuncia coltissima, elegante e feriale insieme; infine, Vanità della mente (Mondadori) di Gian Mario Villalta ha trovato consenso per l’evidente limpidezza di parola. Dopo un’appassionata discussione, i giurati hanno scelto Vanità della mente di Gian Mario Villalta quale opera vincitrice dell’ottantaduesima edizione del premio Viareggio. Il rammemorare più che la memoria sembra essere il cardine di questa raccolta. Un rammemorare che nel suo farsi, sollecitato dall’esperienza e declinato lungo quindici esemplari sezioni, riconduce il nostro sguardo e quello dell’autore a considerare alcuni nodi critici del Contemporaneo: la fragilità della parola, la difficoltà di percepire, la difficoltà di comunicare. Villalta attraversa questi nodi ma non li scioglie, secondando così la sua disposizione interrogante in una ricerca di senso che vede come scenario il paesaggio deturpato del Nord-Est, il quale si fa, ad un tempo, specchio e soglia dove irrompe il passato percepito nell’istante e suggerito dal continuo confronto-scontro tra i segni che il mondo contadino ha lasciato di sé e una modernità che ha sovvertito e cancellato un ordine perduto. Lungo questa linea di conflitto si dispone una salda convivenza di vivi e di morti convocata nella fragilità della parola poetica e riflessa dalla diglossia lingua-dialetto che anima il libro. Gian Mario Villalta sorregge tale conflitto con grande pulizia di sguardo e di linguaggio e ci invita nel riparo fragile della poesia con la sua pietas dal ciglio asciutto, dove, se qualcosa verrà salvato, ‘ci saremo tutti, e ciascuno/ nel presente per sempre passato’, l’autore stesso con noi.”.

SAGGISTICA

[a cura di Marcello Ciccuto]

Mario Lavagetto, Quel Marcel!, Einaudi

In questi ‘frammenti dalla biografia di Proust’, Mario Lavagetto, invece di sfogliare un convenzionale album di famiglia e definire un’ennesima biografia dello scrittore, segnala tracce, radici, sintomi, ombre e avvisi che servono a far scomparire l’autore nella finzione della scrittura: lo scorgiamo anzi qui alle prese con quelle sintonie imperfette rispetto al mondo (le parole) che vengono da una sorta di discesa agli inferi, da un itinerario tra i meno prevedibili alla scoperta di un’identità più profonda e nascosta e ‘straniera’ di quella reale e quotidiana. Se è vero – come ha rilevato Lacan – che le macchine più complicate non sono fatte che di parole, questo studio del grande transfert a cui è soggetto lo scrittore quando passa dal suo io quotidiano a quello che scrive le opere firmate col suo nome ci offre innumerevoli percorsi interpretativi utili a intendere come, annullando se stesso negli infiniti possibili della scrittura, Proust abbia fatto il dono di una “confidenza retrospettiva a tutti quelli che non l’hanno conosciuto”; ed ecco appunto non una comune biografia, ma mille frammenti del sé che attraverso il sublime inganno della letteratura, all’insaputa talvolta dell’autore stesso, ne illustrano la personalità sotto luci le più originali e indirette”.

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