Perché un salone del libro a Milano sarà comunque “secondo”
![](https://www.ilcittadinoonline.it/wp-content/uploads/2016/08/Salone-del-Libro-Torino2.jpg)
di Silvana Biasutti
SIENA. Mejor muerto que llegar secundo dice un proverbio messicano. Ma chi ha avuto la bella pensata di copiare Torino doveva essere in preda a una di quelle crisi ormonali che distorcono la realtà e ti proiettano in una storia in cui tu devi averla vinta a tutti i costi.
È l’impressione che mi lascia questa alzata d’ingegno, chissà forse nata da qualcuno convinto di dover ‘segnare’ un territorio con qualcosa di importante, per lasciare traccia di sé.
Sono molte le ragioni per essere critici rispetto a questa proposta (qualcuno l’ha definita ‘provinciale’, a me fa l’effetto di un gesto da gradasso, come quando il ragazzino robusto e bellicoso che giocava con noi amici voleva averla vinta a tutti i costi, anche negando l’evidenza); ma quando penso all’impegno e ai costi che un editore deve affrontare per partecipare a una fiera del libro e faccio i conti con i cambiamenti e le ristrutturazioni intervenute anche nelle case editrici in questi ultimi lustri, mi si rafforza la sensazione che questa idea coincida con una sfida forzata, quasi qualcosa di personale e un po’ arcaico.
Ma come, proprio i grandi editori che nei tempi recenti hanno sempre più pianto su conti che li obbligavano a ridurre, stringere (e talvolta anche a tirare un po’ via), propongono un secondo salone a Milano, dopo che – da trent’anni – a Torino, con alterne, all’inizio, ma crescenti fortune il Salone del Libro ha fatto nascere intorno a sé una città rinnovata, divenendo peraltro un appuntamento non solo per la gente del libro, ma anche per tutti quelli che sospettano o sanno che senza i libri vivere sarebbe molto meno interessante…
Io conosco e ricordo i mesi in cui è nato il primo salone. Ricordo bene l’arrivo di Guido Accornero – che ne è l’ideatore – arrivare nel mio ufficio per raccontare il suo progetto, illustrato da lui in un cosiddetto giro delle sette chiese, in cui andò personalmente a trovare tutti gli editori.
A quei tempi nella casa editrice in cui lavoravo c’erano autori che si muovevano autorevolmente e che collaboravano a certe scelte con le loro opinioni, andando ben al di là di ciò che era la loro creatura, il loro libro in uscita; ricordo Carlo Fruttero che veniva a trovare Leonardo Mondadori, gli autori della ‘varia’ e le loro aspettative. Era il tempo in cui accanto ai classici e alla narrativa, uno trovava il libro gonfiabile di Roberto D’Agostino. Gli autori, oggi, che cosa pensano di questa proposta?
Leggo che qualcuno appoggia il salone milanese lamentando che quello di Torino è diventato una fiera pop, ma forse dimentica che tutte le fiere del libro mescolano alto e basso, perché va così: ogni pretesto è valido per stare tra le pagine stampate e per attrarre gente verso la parola scritta, qualcosa che ha a che fare con il nostro cuore e la nostra mente, e con la nostra civiltà. (Ma per vedere i libri in un contesto davvero popolare bisogna andare a Booksamerica la fiera dei librai americani, dove i libri perdono qualsiasi sussiego!)
Non so dove sia Guido Accornero, in questo momento, ma mi piacerebbe molto conoscere il suo pensiero, a proposito di questa sfida, come la chiamano gli interessati, dando ancora di più l’idea di una regressione, in cui – invece di lavorare al trentennale del salone di Torino – ci si propone di imitarlo; e invece di sviluppare a Milano la felice iniziativa di Bookcity, il cui programma ne sottolinea il carattere innovativo e milanese, si disperdono energie in un progetto il cui aspetto innovativo è quello di contraddirne un altro, forse per piacere a qualcuno che vuole fare il “suo” salone.
Trent’anni ha impiegato il Salone di Torino per diventare un classico, cioè un appuntamento imperdibile, un giro di boa dell’anno con in mano un libro!
Questa uscita milanese (?) dà la misura di quanto l’Italia sia immatura, preda di egocentrismi vacui, inerme davanti a rivalità e giochi di potere, ancora in preda a campanilismi assurdi, incapace di vedere quello che serve per una crescita culturale – l’unica crescita per cui c’è spazio, tantissimo spazio! – per vedere avanti, elaborare idee, anziché arraffare quelle di successo degli altri; e qui si tratta di imprese culturali, delle idee dei loro vertici e della loro associazione, non del mondo della finanza.
È strano questo tempo, in cui si è perso il senso del lavoro, in cui l’originalità di un’idea anziché suscitare ammirazione e rispetto provoca invidia; in cui la manualità, che serviva a produrre cose concrete, va perdendosi e diventa ‘digitale’; e anche il libro perde il suo ‘volume’ diventando qualcosa di piatto, leggero, inodore, non più sfogliabile …
Ecco, forse il salone di Milano potrebbe essere un salone virtuale, permanente, on line: una piattaforma.