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Faccia a faccia con Saeed Kamali Dehghan: un giornalista che racconta l’Iran

La giovane penna del Guardian premiato per un documentario su Neda, vittima della repressione iraniana

di Viola Caon

LONDRA. Saeed ha venticinque anni e ama la letteratura. Ha letto la Recherche non una, ma due volte e la domanda che fa prima di tutte le altre quando conosce una persona è: “qual è il tuo libro preferito?”. Ma oltre ad essere un amante della letteratura, Saeed è anche un giornalista e soprattutto è iraniano. La combinazione di questi due fattori, di questi tempi, può costituire una miscela esplosiva. E in effetti questo è proprio il suo caso.
Saeed Kamali Dehghan è il corrispondente iraniano del Guardian, rifugiato dall’Iran dove non potrà tornare tanto presto, almeno fino a quando Mahmud Ahmadinejad resterà al potere. Nella sua storia, personale e professionale, si incrociano una serie di temi incredibilmente attuali e piuttosto appassionanti: l’Iran e le proteste del giugno 2009; la libertà di espressione nei regimi totalitari del Medio Oriente; Neda Agha Soltan, la ragazza la cui morte, avvenuta durante le proteste del 2009, è stata filmata da un videofonino; il ruolo dei social network nelle rivoluzioni moderne.
Di recente Saeed, che ha lasciato l’Iran da appena un anno e mezzo, è stato premiato dalla Foreign Press Association con il titolo di giornalista dell’anno per aver realizzato, in collaborazione con la casa di produzione americana HBO, un documentario su Neda intitolato “For Neda”. Ma il suo percorso comincia tre anni prima, mentre lavora per un quotidiano nazionale iraniano. “Collaboravo con questo giornale da un po’ e la vita non era facile”, mi racconta Saeed mentre beviamo un tè nel quartier generale del Guardian, “fino a quando il governo ha deciso di farlo chiudere.”
La censura in Iran ha un’ingerenza pesante e, come spiega Saeed, esiste in tutto: nell’arte, nell’abbigliamento femminile, nei semplici, quotidiani comportamenti sociali. “Ovviamente, esiste anche nella stampa. Da quando Ahmadinejad è salito al potere, poi, le condizioni per i giornalisti sono notevolmente peggiorate. Basta pensare che al momento l’Iran è a pari merito con la Cina in tema di libertà di stampa!”.
Inoltre, Saeed mi spiega, è molto difficile stabilire qual è la linea di demarcazione tra quello che è lecito e quello che non lo è secondo il canone stabilito dalla censura. “Di sicuro”, dice Saeed, “non si deve mai criticare il governo, soprattutto durante le elezioni.” Ed è proprio quello che è successo invece nel giugno del 2009, quando migliaia di iraniani sono scesi in piazza e hanno protestato contro i brogli elettorali che hanno portato alla rielezione di Ahmadinejad.
Quando il giornale con cui collaborava è stato chiuso perché trattava “argomenti poco consoni alla decenza islamica” Saeed ha deciso di prendere la situazione in mano e di trovare una soluzione al silenzio ovattante in cui il regime iraniano cerca di soffocare il paese. Ha chiamato il Guardian e ha iniziato a mandare, di nascosto ovviamente, articoli sulla censura e sul rispetto dei diritti umani in Iran.
Quando poi si è arrivati alle elezioni del 2009, la sua collaborazione con il quotidiano inglese si è intensificata. “Le elezioni di quell’anno erano di grande interesse internazionale”, dice Saeed, “il regime aveva lasciato entrare moltissima stampa internazionale e l’attenzione degli iraniani stessi era particolarmente focalizzata sull’evento.”
Il pre-elezioni, soprattutto, di quell’anno è stato interessante. La scelta dei due candidati, secondo il sistema elettorale iraniano per cui la scelta finale sta al Consiglio dei Guardiani della Costituzione, una cerchia di personalità politiche strettamente legate al Leader Supremo, aveva portato alla candidatura all’opposizione Mihr-Hossein Mousavi, contro la rielezione di Ahmadinejad.
“Tutto era stato gestito secondo le regole del regime e nessuno si sarebbe aspettato che gli iraniani si mettessero a sostenere il candidato dell’opposizione”, dice Saeed. E invece, per chi ricorda quei giorni, l’immagine che prevale è quella di ondate di giovani e adulti vestiti di verde che inneggiano alla cacciata di Ahmadinejad.
La spirale di tensione sale, gli iraniani sembrano sempre più risoluti verso la rivoluzione e durante una delle manifestazioni Neda Agha Soltan viene uccisa con un colpo in pieno petto, le elezioni si svolgono – con palesi brogli elettorali secondo alcuni – e Ahmadinejad viene rieletto.
Da quel momento in poi anche per Saeed le cose si mettono male. Il governo, dopo aver cacciato la stampa internazionale e sbattuto in prigione alcuni giornalisti stranieri, si mette anche sulle sue tracce e in poco tempo gli è alle calcagna. “Avevo paura. Ero costretto a cambiare casa, numero di telefono, avevo un ufficio segreto e non potevo fidarmi di nessuno. Non è stato facile, ma ho cercato di rimanere calmo il più possibile”.
Alla fine, in un momento in cui era ancora possibile per lui uscire dal paese, Saeed è partito per Londra. Un giornalista iraniano rifugiato non manca di attirare su di sé l’attenzione, e ci vuole poco perché l’HBO lo contatti e gli chieda di fare un documentario su Neda. Il rischio per lui era alto: tornare da solo nel paese e intervistare queste persone. Ma Saeed è un giovane intraprendente e vuole fare qualcosa per il suo paese, così decide di tornare.
“Non è stato per niente facile avvicinare la famiglia di Neda,” dice, “sono tuttora sorvegliati dalla polizia.” Ma lui è uno che il suo lavoro lo sa fare e dopo essersi procurato il numero di telefono del fratello di Neda, lo va a trovare nel posto in cui lavora e gli chiede se la sua famiglia è disposta a farsi intervistare. “Quando sono entrato nella sua stanza mi sono commosso. Guardando tra le sue cose, facendo domande su di lei, mi sono accorto che Neda avrebbe potuto essere qualsiasi altra ragazza. Non era un’attivista, non era una ragazza estremamente politicizzata, era una delle tante ragazza di 26 anni scese in piazza a manifestare per la libertà dell’Iran. Al suo posto avrebbe potuto essere uccisa qualsiasi altra ragazza. Questa normalità mi ha molto colpito e ho cercato di renderla al meglio nel documentario”.
E evidentemente Saeed aveva ragione. Al ritorno in Inghilterra, il documentario è stato accolto con grande successo di pubblico, oltre che con il riconoscimento della Foreign Press Association. “è stato molto bello, al di là del premio. Sono contento che persone fuori dall’Iran abbiano potuto vedere la differenza tra il regime iraniano e gli iraniani stessi.”
Secondo Saeed, infatti, il suo popolo ha dimostrato di essere pronto per la democrazia e a guardare ai recenti avvenimenti nel Medio Oriente, i popoli vicini stanno muovendo in questa direzione. Che sia un segnale per una nuova rivoluzione iraniana? “Non saprei,” dice Saeed, “di sicuro è il segnale di un cambiamento. Di sicuro questi popoli stanno dimostrando di avere una coscienza e un senso della democrazia. È difficile dire che cosa seguirà.”

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