In una lettera e in una intervista di qualche mese fa il suo racconto dell'esperienza
MILANO (Corriere.it). «Siamo il primo mezzo della colonna, ogni metro potrebbe essere l’ultimo, ma non ci pensi». Così Matteo Miotto, 24 anni, alpino ucciso in Afghanistan a causa di un proiettile che lo ha centrato alla spalla mentre era in perlustrazione su un mezzo Lince, raccontava la tensione delle perlustrazioni con il «Lince» nella valle del Gulistan in una toccante lettera pubblicata dal sito on line del Gazzettino, poche settimane dopo l’agguato in cui, il 9 ottobre, erano rimasti vittime quattro alpini del 7° reggimento di Belluno. «La testa è troppo impegnata a scorgere nel terreno qualcosa di anomalo – spiegava Matteo -, finalmente siamo alle porte del villaggio… Veniamo accolti dai bambini che da dieci diventano venti, trenta, siamo circondati, si portano una mano alla bocca ormai sappiamo cosa vogliono: hanno fame…». Nella lettera l’alpino, originario di Thiene, ringraziava in Italia quanti «vogliono ascoltare i militari in missione, e ci degnano del loro pensiero – proseguiva – solo in tristi occasioni, come quando il tricolore avvolge quattro alpini morti facendo il loro dovere». La missiva era stata accompagnata sul sito del quotidiano veneto da una foto di Matteo sulla torretta di un blindato, con in mano la «sua» bandiera tricolore con la scritta «Thiene» e le firme degli amici. In un’intervista telefonica in occasione della festa del 4 novembre, Miotto aveva raccontato al Giornale di Vicenza: «Mi ricordo quando mio nonno mi parlava della guerra, “bruta cosa bocia (ragazzo, ndr), beato ti che non te la vedarè mai”. Ed eccomi qui, nella Valle del Gulistan, Afghanistan centrale. Se potessi ascoltarmi ti direi: “Visto, nonno, che te ti si sbajà”». «Sono entrato nel corpo degli alpini nel 2006 – aveva spiegato Miotto – appena terminate le scuole superiori, per fare un’esperienza, anche sulla scia dell’esempio di mio nonno, alpino anche lui. Poi mi sono appassionato al lavoro, ho sentito che potevo dare qualcosa e così sono rimasto. Appena ho saputo della missione ho dato la mia disponibilità e ora sono qui, nella valle del Gulistan». «Quando non siamo fuori in perlustrazione – aggiungeva – siamo nella base e possiamo chiamare a casa o utilizzare il pc. Ovviamente mi mancano la mia ragazza, gli amici, le mie montagne e i miei bar, ma sono convinto della scelta fatta. Ho con me un ricordo dell’Italia, una bandiera con le firme degli amici più stretti».