Lettera aperta di Mauro Aurigi al direttore del Corriere fiorentino a proposito del libro-inchiesta “Siena brucia”
SIENA. “Esimio dott. Ermini, immagino che si ricordi di me. Sono senese, ma sono temporaneamente a Firenze per motivi familiari, per cui mi era giunta solo l’eco delle polemiche che la presentazione senese del libro “SIENA BRUCIA” di David Allegranti aveva sollevato. Quindi è per curiosità che il 17 c.m. ero alla RED di Feltrinelli ad ascoltarvi per l’analoga presentazione fiorentina. Alla fine le ho chiesto quante ore mi sarebbero state concesse per una replica. Ovviamente ‒ era già molto tardi ‒ non mi sono stati concessi che pochi minuti. Per cui eccomi qui a dire quello che non potei dire allora.
Dico subito che dopo avervi ascoltati, lei e l’Allegranti, non mi sono più meravigliato che a Siena si sia sollevato un polverone. A Firenze ‒ come a Siena immagino ‒ si sono sparsi a piene mani sarcasmo e ironia su vizi e virtù dei Senesi, con grande diletto del pubblico. A cominciare subito dall’intervento, breve ma che avrebbe dovuto essere anche asettico, della rappresentante della libreria che ci ospitava. Ma ancora più del sarcasmo e dell’ironia (sia detto con le dovute proporzioni: era dal tempo dell’antisemitismo che in Italia non si sentivano tante critiche su una comunità di umani) c’è un altro aspetto che ha reso inaccettabile il tono generale: essersi eretti, non so in forza di quale autorità, a censori, giudici e, peggio, pedagoghi di una comunità. E’ vero che il Paese tutto ha una matrice culturale fascista immarcescibile (il fascismo non è nato con Mussolini né è morto con lui) a cui ci è difficile sottrarsi, ma non ci si deve lamentare se poi le vittime di tale trattamento si ribellano. E’ vero, i Senesi sono molto particolari, ma almeno una cosa non l’hanno mai fatta e non la faranno mai: erigersi a censori, giudici e pedagoghi dei comportamenti di altrui comunità. Siamo troppo narcisi (è vero) e come Narciso guardiamo solo a noi stessi. Insomma non ci passa neanche per l’anticamera del cervello di insegnare agli altri come si fa a stare al mondo. E quando ci imitano (c’è chi lo fa) la cosa non ci fa per niente piacere, anzi. Insomma eravate e siete liberi di criticare, ma non di lamentarvi, come avete fatto, se poi qualcuno s’incazza.
SIENA CITTA’ CHIUSA? MA SE E’ STATA “APERTA” TROPPO (E SCONCIAMENTE) DA UN COLONIALISMO SPIETATO!
Ma veniamo ad aspetti più particolari e meno generali.
Anche lei, caro Direttore, non ha saputo resistere alla tentazione di far risalire i guai della Città alla sua “chiusura” o meglio alla cultura chiusa e retrograda dei suoi abitanti. “Siena si deve aprire” è ormai un mantra per i nostri esegeti esogeni (ed anche per i più ottusi dei Senesi). Come se non si avesse sotto gli occhi una realtà inoppugnabile: Siena, fino a quando è stata gestita dai Senesi, è stata ricchissima e colta e neanche tanto invidiata perché fino ad allora nessuno, da fuori, si era accorto della sua “colta ricchezza”. Tutto è cambiato a partire dagli anni ’80 dello scorso secolo, quando ha cominciato, non ad aprirsi, ma ad essere aperta da gente venuta giù con la piena, “decisionisti” che hanno scosso dalle fondamenta questo mondo ovattato e sonnacchioso ma prospero come pochi altri. Così, mentre a Roma stava occupando la scena nazionale il “decisionista” Craxi (e da allora la crisi economica italiana non ha avuto più fine), la scena senese veniva occupata dal sassarese Luigi Berlinguer e dal romano Pierluigi Piccini, ambedue del Pci e ambedue “decisionisti” a prescindere, tanto da sentirsi il primo come fondatore dell’Università (XIII secolo) e il secondo come inventore del Palio (XV-XVI secolo). In effetti le eccellenze di Siena, Università e Palio inclusi, non avevano avuto fondatori, essendo tutte frutto dell’azione creativa, corale e anonima del popolo. I due e i loro diretti successori, avevano ‒ come il Padrone Bianco nei confronti dei buoni selvaggi delle colonie ‒ una pessima opinione dei nativi, ritenuti degli inetti scansafatiche, insomma dei perfetti sciaborditi (grulli in fiorentino). La cosa fu ufficializzata da un altro venuto giù con la piena, Omar Calabrese, docente universitario nonché assessore comunale alla cultura. Questi, reagendo ai pochi che, come chi scrive, parlavano esplicitamente di regime coloniale, dichiarò in una intervista del 2.8.1998 al Corriere di Siena che la Città aveva eccellenze di dimensioni sproporzionate rispetto al proprio corpus per cui “non c’è abbastanza scelta per far maturare una classe dirigente esclusivamente locale”. Se un intellettuale era così “incoerente” da sostenere che coloro che avevano costruito quelle eccellenze erano così imbecilli da non essere poi all’altezza di gestirle (puro razzismo insomma), per cui dovevano essere affidate a chi cose del genere non era mai riuscito a costruire, immaginatevi un po’ l’ottusità culturale degli altri “colonialisti” ‒ che non erano neanche intellettuali ‒ a cui il groviglio del Pd teneva “aperta” la porta di Siena .
L’elenco di questi signori è lungo (si veda qui , dove però mancano i mercenari foresti più recenti come Alessandro Profumo e Fabrizio Viola al vertice del Monte dei Paschi, e Marcello Clarich al vertice della Fondazione ) ed è certamente incompleto, ma dà un’idea di come una parte non secondaria della classe dirigente italiana abbia fatto carriera sulle spalle dei Senesi, a nessuno dei quali, nella propria città, è toccato un destino neanche lontanamente paragonabile.
Col passaggio di questa valanga di barbari (l’avidità spietata di questi colonizzatori non aveva nulla da invidiare a quella dei colonialisti di ogni altra epoca e luogo) Siena si è afflosciata, ormai totalmente svuotata dall’interno. Solo una coincidenza o ci sarà un rapporto di causa e effetto? Chissà. Comunque c’è ancora oggi chi questo banale meccanismo non l’ha capito e, come lei Direttore, invoca maggiore apertura verso l’esterno (l’ha fatto recentemente in consiglio comunale Massimiliano Bruttini autorevole esponente del Pd) come se la Città non fosse già stata oscenamente aperta e stuprata abbastanza. Per chiudere su questo argomento vorrei che fosse chiaro che non è in discussione il diritto degli alieni ad avere importanti incarichi nella o dalla Città, ma il perché analogo diritto non è stato riconosciuto ai Senesi.
Ad onor del vero va però anche detto che ci sono non senesi diventati più senesi dei Senesi stessi e perfino ancora più fieri e orgogliosi dei Senesi di questo passato che ancora si vive a Siena.
ALTRO CHE “BABBO MONTE”! IL MONTE ERA IL FIGLIO E SIENA LA SUA MAMMA.
L’altro leitmotiv della serata è stato il Monte dei Paschi visto esclusivamente come un ingiusto privilegio caduto dalle stelle e immeritatamente assegnato ai Senesi non si sa se dalla divina provvidenza o da un insensato atto di qualche misterioso potere o potente signore, come la FIAT a Torino, per esempio. Insomma tutto è stato detto del Monte tranne il fatto che giuridicamente apparteneva al Comune di Siena perché i Senesi se lo erano fatto da soli (per combattere l’usura), circondandolo di amorevoli cure per mezzo millennio (lo sapeva, Direttore, che anche Firenze aveva il suo Monte, più antico di quello senese, ma fatto fallire dai Fiorentini nell’800?) fino a farlo diventare la potenza economica internazionale che è stato. E ciò fino alla sua privatizzazione avvenuta, contro la volontà popolare, nel 1995. Ovviamente nessun riferimento si è sentito, né da lei né da Allegranti, al fatto che sia stata la sua privatizzazione (termine che giustamente ha la sua radice nel verbo “privare”) a provocare una seconda valanga colonialista che l’ha ridotto nelle condizioni che sappiamo. Anzi, proprio lei Direttore ha accennato al fatto che finalmente la Banca è stata portata via ai Senesi (nel senso di “così imparano”), ponendo fine al modo indegno e indecoroso con cui loro stavano attaccati allegramente alle sue mammelle fino a mungerla del tutto. E’ vero che i Senesi fossero i maggiori destinatari di quella ricchezza, ma fino alla sua privatizzazione e all’arrivo della valanga “coloniale” il prelievo era limitato a una parte minoritaria, anzi minima degli ingenti utili che la Banca faceva ogni anno, perché questo i Senesi avevano scritto nello statuto del loro Monte: la maggior parte doveva essere portata a fondi per la copertura dei rischi d’impresa, mentre il rimanente andava per un 50% al Comune (opere di beneficienza e pubblica utilità) e l’altro 50% al capitale del Monte. E’ così, anche grazie alla Banca, che la Città e i Senesi godevano di una più che soddisfacente prosperità. Di grazia, chi altri se non i costruttori avrebbero dovuto godere dei benefici di quella costruzione? E che dire dei geni della Banca d’Italia che spingevano per la privatizzazione perché (sentite, sentite, che pensiero profondo!) ritenevano inaccettabile che una città così piccola avesse una banca così grande. Ovviamente sugli Agnelli, miglia di volte più piccoli di Siena e proprietari di un’impresa decine di volte più grande del Monte, niente, neanche le linguacce. A qualcuno è mai venuto in mente di criticare i Pratesi perché godevano indecentemente della ricchezza del tessile, almeno fino a quando, non molti anni fa, Prato era la città più ricca d’Italia? O gli Aretini per il loro oro? O Berlusconi perché godeva degli ingenti e esclusivi guadagni delle sue imprese? Ma i Senesi per il Monte sì, però solo dal momento in cui son caduti in disgrazia (sciacallaggio?).
Resta il fatto che appena privatizzata e praticamente cacciati i Senesi (nella prima deputazione della Fondazione, ossia nel suo cda che gestiva il 100% delle azioni del Monte, non c’era un solo senese, cosa poi diventata sistemica sia nella Banca che nella Fondazione), la Banca ha smesso di guadagnare ed è entrata in operazioni avventurose che quando era pubblica neanche avrebbe mai immaginato, esposta com’era al controllo occhiuto dell’opinione pubblica. Tanto per spiegare: Giovanni Cresti, direttore generale del Monte dal 1975 al 1983, il migliore che la Banca avesse avuto nella seconda metà del ‘900 (periodo della sua massima espansione), si dimise dalla carica perché solamente sospettato di adesione alla loggia P2, e per alcuni anni non si fece vedere in giro nonostante che fosse circondato dalla stima e dal rispetto della cittadinanza. Nella sua lettera di addio ai dipendenti scrisse che lasciava l’Istituto – allora così chiamavamo la Banca – più ricco e autonomo che mai (sic!).
Il bello era che la banca non guadagnava, ma, miracolo della privatizzazione, gli “utili” agli azionisti privati venivano distribuiti ugualmente e generosamente. Bastava vendere ogni anno un po’ dei tanti gioielli di famiglia portati a bilancio a valori infimi e quindi realizzare le ingenti plusvalenze di vendita che, invece di essere portate a capitale visto che erano cespiti della ex Banca pubblica, venivano allegramente distribuiti agli azionisti privati, del tutto immeritatamente (ovviamente il patrimonio aziendale si assottigliava ogni anno di più). Ci pensava poi la Fondazione, allora massima beneficiaria di quegli utili fasulli, a renderli anche evanescenti nelle cosiddette opere di beneficenza e pubblica utilità (tipo chiese in Ucraina e moschee nel mondo arabo, senza poi che dei progetti finanziati si sapesse più niente). E la cosa è finita come doveva finire: la Banca, già più solida d’Europa, sull’orlo del fallimento e la Fondazione, già più ricca d’Italia, totalmente prosciugata.
Mi dica lei, Direttore, se non si può parlare di sfruttamento del tutto simile a quello colonialista praticato nel terzo mondo. E dica se, per avere cercato di spiegare frettolosamente queste cose, è stato giusto coprirmi di urla “si vergogni, si vergogni!”, come quel pomeriggio qualcuno ha fatto.
SIENA, IMMERSA NELLA SUA STORIA COME NESSUN’ALTRA CITTA’
Lei, Direttore, ha detto che Allegranti ha scritto il libro con un criterio giornalistico. Ma sarebbe stato meglio se avesse seguito un metodo storico. Perché Siena, giornalisticamente non è attuale, immersa com’è ancora oggi nella sua storia. Pensi che ininterrottamente per 800 anni i Senesi nel Campo sono stati sempre attori e mai spettatori. Prima con le esercitazioni delle compagnie militari rionali (tutti i maschi dai 16 ai 60 anni, preti e frati compresi, ne facevano obbligatoriamente parte). Poi con le Contrade che dalle compagnie militari discendono da quando nel 1559 il Granduca fiorentino, piegata sanguinosamente Siena, aveva abolito queste ultime (i tiranni sono sempre terrorizzati dall’idea del popolo in armi).
Fino alla calata dei “colonialisti”, ossia fino a una ventina di anni fa, forse addirittura il 90% della vita sociale, economica e culturale dei Senesi dipendeva, e ancora oggi dipende, da prestigiose entità pubbliche di eccellenza, non parassitarie come invece è normale in Italia per il settore pubblico, ma produttrici di cultura e benessere economico e per giunta create dai Senesi stessi tra i 500 e i 1000 anni fa, durante il periodo repubblicano. Per citare le maggiori: la Banca (la più antica del pianeta e la più solida d’Europa, con 30.000 dipendenti); l’Ospedale (con i sui 1000 anni almeno, forse il più antico del mondo e forse il più grande della Toscana nella città più piccola della regione); l’Università (risale al XIII secolo: più di 20.000 studenti in una città di poco più di 50.000 abitanti); l’Arte (ossia il turismo: più di 5mln di presenze). Bene, di tutto ciò che i Senesi hanno (avevano) ‒ ed è (era) molto di più di quanto avessero i conterranei ‒ non devono ringraziare nessuno, né un papa, un principe, un re e neanche un capitano d’impresa, ma solo se stessi.
Quello che ho descritto probabilmente è un caso unico al mondo.
Nell’800 i Senesi si fecero da soli tutte le ferrovie che prima i Lorena e poi i Savoia avevano negato loro. E siccome dall’Inghilterra, dove erano andati a vedere come si faceva, avevano portato anche le conoscenze per costruire le locomotive, se le costruivano da soli (cosa che rapportata all’oggi è come se a Siena si costruisse lo Shuttle).
Nella prima decade del secolo scorso il Comune con i propri tecnici e i propri soldi si fece l’acquedotto che portava l’acqua dal Monte Amiata, 100 km più a sud. Fino ad allora Siena, priva di acque superficiali e di falda, aveva usato l’acqua che geme ancora oggi dalle pareti dei 30 km di gallerie medievali costruite a questo scopo e che sgorga poi abbondante in fonti monumentali erette alla dea Acqua (Siena ha più fonti di Firenze).
Come meravigliarsi allora se i Senesi continuano a vivere immersi nella loro storia? Non meritano (meritavano) almeno un cenno di stima e di lode invece che solo l’ironia e il sarcasmo? Come meravigliarsi che di tutto ciò siamo così orgogliosi fino a renderci antipatici a tutti (tranne a quei pochi che hanno cuore, cultura e intelligenza per capire)? Ma meglio essere invidiati che compatiti, diceva una saggio che ho conosciuto.
Insomma se non si tiene conto di tutto questo, come si può scrivere di Siena e dei Senesi e pretendere di essere credibili?
POTEVA MANCARE MONTAPERTI? CERTO CHE NO!
E poi il ripetuto sarcasmo sul ricordo di Montaperti. Siena, per tutta la sua storia ha combattuto per la propria sopravvivenza contro lo strapotere di Firenze e tutte le sue guerre e battaglie sono state combattute sotto le sue mura. Facile capire chi fosse l’aggressore più forte e chi l’aggredito più debole. Firenze, doppia e poi anche tripla in popolazione, ricchezza e potenza, sin dal XIII secolo riuscì a portare il suo confine meridionale a 15 km dalle mura di Siena. Ma lì la inchiodarono per quasi 400 anni i Senesi. Nel 1202 dopo quattro anni di assedio fu sconfitta e rasa al suolo dai Fiorentini Semifonte, un’altra città, poco a nord di Siena, che si era opposta all’espansionismo fiorentino. Di essa non rimane una pietra sull’altra, ma solo uno sbiadito ricordo. Questo è quello che sarebbe rimasto anche di Siena dopo Montaperti se fosse stata sconfitta. E scusate se i Senesi ancora oggi pensano a quella battaglia, una delle più sanguinose di tutto il Medioevo europeo, con autentica emozione.
Ma non basta. Nel ‘500 quasi l’intera Italia passò sotto il dominio spagnolo (ancora oggi il Paese paga il peso di quella dominazione). Bene, davanti all’esercito imperiale ispano-germanico la grande e ricca Firenze resistette eroicamente dieci mesi prima di arrendersi nel 1530 per fame. Ma la piccolissima Siena (25-30mila abitanti), che nel 1552 aveva temerariamente sfidato da sola lo stesso esercito accresciuto da quello fiorentino, resistette per ben sette anni (Roma solo due ore!).Tutto il territorio dello Stato senese fu messo a ferro e fuoco tanto che ancora nell’800 si vedevano nelle campagne gli effetti di quella devastazione. Combatterono anche le donne (per quanto ne sappia caso unico per quell’epoca e anche oltre), tanto che Blaise de Montluc, rappresentante del re di Francia a Siena e uno dei massimi condottieri del secolo, anni dopo, mandato a difendere Roma, scriverà nelle sue memorie: “…piuttosto ritornerei a difendere Siena con le sole donne senesi, che difender Roma coi romani…” .
Dopo quei sette anni in Città non c’erano rimasti che 6-7000 poveri sopravvissuti stremati, tutti gli altri erano morti delle tre “effe”, ferro, fame e fuoco, piuttosto che rinunciare alla libertà. Nessun’altra città in Italia si oppose come Siena alla dominazione spagnola. Bene di quell’epopea gloriosa non c’è traccia nei libri di testo scolastici, ma c’è lo studio approfondito di un romanzesco assedio di Troia di 3000 anni prima in una terra lontana e di cui non esistono documenti storici quindi forse mai esistito. Ma i Senesi non se la prendono: quell’epopea continuano a portarsela nel cuore, magari inconsapevolmente.
Nel 1559 non ci fu la sconfitta perché la Repubblica resisteva ancora. Ma a Cateau-Cambrésis quell’anno ci fu la pace tra Spagnoli e Francesi, comportante anche il passaggio dello Stato senese in feudo ai Medici: la guerra con la Spagna poteva anche continuare ma Spagna e Francia alleate erano troppo anche per gente cazzuta come i Senesi. E ci fu la resa.
Ancora nel ‘700 Siena tentava di salvare la propria lingua contro lo straripante fiorentino. Ma il vocabolario della lingua senese redatto da Girolamo Gigli fu bruciato nel 1717 dall’Accademia della Crusca nelle piazze di Firenze su ordine del Granduca (altra triste usanza dei tiranni, quella di bruciare i libri), e il suo autore, perseguitato, dovette rifugiarsi nella Roma papalina dove evidentemente spirava aria più liberale che nel Granducato toscano. E scusate ancora se i Senesi guardano alla loro storia con emozione.
D’altra parte a Firenze si fa di peggio. Anche lì si glorifica la propria storia, ma di questa si è scelto il peggio, spendendo un ballino di soldi (anche i nostri!) per celebrare i fasti della famiglia medicea, quelli di Lorenzo il Magnifico e perfino delle due medicee regine di Francia, tutta gente che ha tolto la libertà repubblicana alla Toscana (con il loro avvento ovviamente la regione e Firenze spariscono dalla scena culturale e artistica che avevano fino ad allora dominato). Niente per quanto riguarda l’eroica e sfortunata difesa che i Fiorentini fecero della propria libertà, contro i Medici e gli Spagnoli. Intanto un documentario americano su quella famiglia definisce i Palleschi, giustamente, mafiosi e fascisti: avevano una polizia segreta per perseguitare gli avversari, anche quei Senesi che scapparono per sempre da Siena dopo la caduta della Città perché non volevano trasformarsi da cittadini in sudditi dei Medici, rifugiandosi anche in Francia e Inghilterra, dove però i sicari dei Medici li tormentarono e assassinarono (Mussolini con l’assassinio dei fratelli Rosselli in Francia, non aveva inventato niente). Ecco, un altro libro dell’Allegranti, pur esso pedagogico su questa distorsione culturale e morale dei Fiorentini, dopo quella dei Senesi, mi sembrerebbe opportuno (i Senesi non lo farebbero mai, un po’ perché da buoni narcisi se ne fregano di quello che fanno gli altri, un po’ perché passerebbero presto dalla pedagogia, che non interessa loro, agli insulti in cui sono invece molto bravi).
ALCUNE NOTE SUL “GROVIGLIO ARMONIOSO” E DINTORNI
Tutto vero sul “groviglio amoroso”, ma non c’è niente di nuovo sotto il sole, Direttore. Tutti i regimi dispotici ‒ anche quello che il Pci-Pds-Ds-Pd ha negli ultimi 20 anni instaurato a Siena ‒ hanno bisogno almeno del 90% dei consensi popolari (precisiamo: il consenso attiene alla tirannia, mentre è la partecipazione che attiene alla democrazia), che consente loro di perseguitare i pochi dissidenti. Ma nessuna tirannia può reggersi anche solo col 70% dei consensi, come è largamente dimostrato dalla storia e dall’attualità. A Siena il partito dominante aveva messo tutti d’accordo; i partiti di opposizione, la stampa e la tv, i sindacati e la confindustria, la Chiesa e la Massoneria. Un consenso totale non gratuito perché per mantenere quel potere si sono disseccate tutte le eccellenze cittadine come, tanto per citare le maggiori, l’Università, l’Ospedale e il Comune, indebitati fino agli occhi, per finire con lo scempio del gioiello più bello, il Monte. Quelli che lei, Direttore, ha chiamato fiore all’occhiello della comunità, il basket e il calcio ormai decaduti, non erano altro che volgarissimo panem et circenses, con l’aggravante che il “principe” non spendeva i soldi suoi per piegare il popolo, ma i soldi del popolo stesso (quelli del Monte). C’erano anche quelli che si opponevano, ma non credo rappresentassero neanche il 2%, e talvolta neanche quello perché spesso si trattava di individui isolati, ovviamente ridicolizzati, nel limite del possibile molestati e comunque tacciati di essere Cassandre (come se Cassandra fosse quella che dava di fuori!). In quel groviglio c’erano ovviamente anche i Senesi, ma pochi e in posizione ancillare, come Barzanti e Valentini, inopinatamente vostri interlocutori nella presentazione senese di “SIENA BRUCIA”; il grosso del groviglio era rappresentato dai “colonialisti” di cui sopra.
CONCLUSIONE
Lei, Direttore, ha ragione da vendere nel dire che quello senese è un caso di scuola che vale per tutto il Paese. Ma sai che scoperta! Perché se hai un tesoro prezioso, accumulato gelosamente per così tanto tempo, con una passione eccezionale come hanno fatto i Senesi, e un giorno lo affidi al primo foresto che passa, hai il 90% delle probabilità di vederlo sfumare. Insomma Allegranti ha fatto la scoperta dell’acqua calda, sempre ammesso che l’abbia capita.
Direttore, ci sarebbe stata anche l’ironia sul Palio e le Contrade, ma rinuncio a commentare: argomento troppo arduo da spiegare a chi non è nato nelle nostre lastre.
Ma su una cosa sono assolutamente d’accordo con voi: la responsabilità di ciò che è successo è tutta dei Senesi e della loro attuale dabbenaggine: in meno di 30 anni si sono fatti trasformare docilmente da cittadini in sudditi, da popolo in plebe. Nel corso della loro lunga storia non erano mai stati così coglioni.
Ora mi leggo “SIENA BRUCIA” e vedrò se a quanto detto c’è qualcosa da aggiungere o aggiustare.
A lei, caro Direttore, i miei saluti e anche i miei complimenti se avrà avuto la pazienza di leggermi fino a qui”.
Mauro Aurigi