Lettera aperta di Mauro Aurigi al numero uno di Banca Mps
di Mauro Aurigi
SIENA. Sig. Presidente, sono stato un dipendente del Monte dal 1957 al 1999, anno del pensionamento volontariamente anticipato di 5 anni perché mi era diventato insopportabile essere testimone di quello che stava succedendo al Monte dall’anno della sua privatizzazione (1995).
Non so quanti azionisti si siano presi le briga di leggere le 823 pagine del “Progetto di Bilancio al 31.12.2012”. Io l’ho fatto. Fatica improba e inutile: tra sigle, acrostici, anglismi e il linguaggio usato non ci ho capito niente. Tranne due cose che invece spero di aver capito nel modo giusto:
1. Nella stesura di precedenti bilanci erano state omesse dalla vecchia amministrazione poste per 863mln relative a costi del personale e 3.122mln per costi legati alle tristemente famose operazioni “Alexandria”, “Santorini” e “Nota Italia”. Le omissioni sono state classificate come “errori”, ma a me, così come sono state illustrate, sono apparse piuttosto come falso in bilancio. Mi sono sbagliato?
2. A pag.485 del “Progetto” si dichiarano, appunto, perdite nel bilancio per 3.122mln ai quali si devono aggiungere 818mln di perdite omesse nei precedenti bilanci (il Collegio sindacale indica una perdita di 868mln, ma lasciamo stare: a questo punto 50mln più o meno che differenza fa?) per un totale di 3.940mln. A copertura si prelevano da riserve 4.517mln, ossia 577mln in più. Ci deve essere una spiegazione ma non sono riuscito a trovarla. Così come non ne ho trovate per quanto si rileva subito dopo nella stessa pagina 485: “Resta fermo che al 31 dicembre 2012 risultano iscritte riserve negative ex. art. 6 comma 1 lettera b) D. Lgs. 38/2005 per Euro 2.256.616.296”. Riserve negative?
I CASI SCANDALOSI DI ANTONVENETA e…
Ciò detto spero che abbiate ragione, lei e l’a.d. Viola, quando mi sembra che diciate che avete fatto il possibile e che non si poteva far di meglio. Ma rimango sbalordito ancora una volta perché non si sia espliciti di fronte agli azionisti. In due anni si sono denunciate perdite per 8mld. E’ forse cosa di normale amministrazione? Insomma la stampa di tutto il mondo, sia detto senza esagerazioni, ha sviscerato il caso Monte dei Paschi, ma sulla questione gli amministratori della Banca, verosimilmente in possesso di informazioni di prima mano, tengono invece la bocca cucita con gli azionisti che li hanno eletti. Non mi riferisco alle operazioni con Nomura e D.Bank, sulle quali invece avete speso un fiume di inchiostro nella relazione al bilancio peraltro restando, almeno per me, assolutamente incomprensibili. Mi riferisco invece all’ “affare” Antonveneta, la madre di tutte le disgrazie, acquistata a prezzo stratosferico in 24 ore. Il Documento informativo del Monte alla Bankit del 15.6.2008 dichiarava che il valore reale dell’Antonveneta era di soli 2.845mln per cui, per raggiungere il prezzo pagato di oltre 10.000mln, la differenza di ben 7.292mln era stata imputata a beni immateriali come avviamento. MA QUALE AVVIAMENTO!? Una cosa aberrante anche se quella banca fosse stata in buone condizioni di salute. E invece era anche in piena crisi: nel passaggio dall’olandese Amro alla spagnola Santander aveva perso il 35% della clientela e mostrava segni negativi sia nella raccolta che negli impieghi e nei risultati di bilancio. In più si è sentito parlare della scoperta ex post (ovviamente l’acquisto era stato fatto senza alcuna clausola di salvaguardia) di 3mld di crediti dalla solvibilità quasi inesistente e di ben 7,5 miliardi di prestito da parte della Amro all’Antonveneta con la clausola che la nuova controllante, ossia il Monte, avrebbe dovuto immediatamente rimborsare, come poi pare abbia fatto portando a 17mld il totale dei bonifici per la conclusione di questo strabiliante affare.
Bastavano dunque 3mld per pagare l’Antonveneta e sembra che invece ne siano stati pagati 17. Che si fa allora: aspettiamo che l’eventuale reato, nel caso si sia trattato davvero di malversazione, cada in prescrizione? Così come è successo per l’acquisto della Banca 121 fatto nel febbraio 2000, dove gli importi furono molto più modesti, ma il metodo è stato, se possibile, anche più scandaloso?
… e BANCA 121
Si tratta di un altro bidone, dal valore meno di zero come rilevarono gli ispettori del Monte, pagato subito 2,5mld di lire e dopo forse altrettanto per i danni collaterali che l’operazione inflisse al Monte. Qui si assisté ad una gara al rialzo tra Monte e San Paolo durata qualche mese che fece gonfiare il prezzo dai già generosi 800mln offerti dal Monte fino ai 2,5mld finali. Lo scandalo sta nel fatto che il San Paolo era una partecipata del Monte, motivo per cui due componenti del CdA di quest’ultimo sedevano anche nel CdA del San Paolo: che facevano questi? votavano a favore dei rialzi sia quando erano a Siena, sia quando erano a Torino? Immagino che ormai l’eventuale reato sia caduto in prescrizione nonostante che questa storia fosse stata descritta dal sottoscritto in Assemblea dei Soci (bilancio 2002) e ripetutamente anche dopo. O forse ancora si potrebbe procedere per illecito arricchimento contro gli azionisti della Banca 121. Chissà?
Comunque, speriamo sia vero quello che è stato dichiarato, ossia che, dopo avere appostato in soli due anni 8mld di perdite d’esercizio, il bilancio sia stato finalmente bonificato e che non ci siano altri scheletri nascosti nell’armadio.
Ma mi rimane senza risposta la domanda: di fronte ad operazioni come quelle di cui sopra, possibile che nessuno del CdA, soprattutto quelli che si sono visti falcidiati il valore delle azioni (fino al 90 o al 95% del valore d’acquisto) e la loro redditività, e che nessuno del Collegio sindacale abbia avuto alcunché da eccepire? E anche dalla Bankit o dalla Consob o dal Ministero dell’economia nessuna osservazione? Domande che resteranno senza risposta?
DA VIRTUOSE BANCHE PUBBLICHE A VIZIOSE BANCHE PRIVATE
Veda Presidente, tornando alla questione delle riserve con cui è stata coperta la perdita del 2012, mi ricordo che quando la Banca era pubblica la maggior parte degli ingenti guadagni, diciamo l’80%, veniva portata a riserve e a fondi rischi. Nessuno si lamentava, neanche il Comune che pure era destinatario del 50% che rimaneva dopo quei più che considerevoli accantonamenti. Era questa l’unica strategia della banca. Così, quando arrivavano le immancabili crisi economiche e le banche private boccheggiavano o schiantavano, il Monte aveva una liquidità strabocchevole. Era così, senza alcuna strategia specifica, senza mai un piano industriale, che il Monte cresceva, e crescevano anche la Città e il suo territorio, mentre le banche private soffrivano o fallivano, strozzate dall’avidità dei loro stessi azionisti che imponevano operazioni rischiosissime puntando al massimo e immediato profitto da distribuire subito. E, pur prescindendo dalla fitta rete di Casse di Risparmio che aveva caratteristiche analoghe, c’erano almeno altre due grandi banche pubbliche che si comportavano come il Monte e infatti insieme al Monte erano le migliori d’Italia con il massimo dei voti da parte delle agenzie internazionali di valutazione: il San Paolo di Torino e la Cariplo di Milano. Tre rarissimi esempi di aziende pubbliche che funzionavano assai meglio di quelle capitalistiche (e proprio nel ramo che è capitalistico per definizione!). Non è certo per caso che queste tre banche abbiano dato origine, dopo la privatizzazione, ai tre più grandi gruppi bancari d’Italia: Mps, Unicredit e Intesa.
Ma la privatizzazione le ha private (non è un bisticcio di parole: privatizzare deriva proprio da privare) tutte e tre della filosofia che sta alla base del loro brillante, costante, plurisecolare successo: banche pubbliche, cautissime, legatissime alle comunità di cui erano espressione e orientate a obiettivi pubblici. Anche orientate al profitto ovviamente, ma da destinarsi esclusivamente a finalità pubbliche (tali erano quelli dell’aumento delle proprie riserve, della beneficenza e delle opere di pubblica utilità). E comunque si tenevano a distanza dalla cultura della speculazione e dei rapporti incestuosi con le imprese private e quindi anche lontane dai grandi scandali economici. Così, quando arrivavano le grandi crisi storiche e le banche private sparivano, il Monte, il San Paolo e la Cariplo, fortemente liquide e patrimonializzate benché ancora di modeste ma crescenti dimensioni, erano l’unico paracadute rimasto aperto per l’economia del Paese.
LA STRAGE DELLE BANCHE PRIVATE
Nella prima grande crisi economica, tra il 1880 e il 1890 sparirono tutte le grandi banche private, Banca Romana di sconto, Banca Generale, Società di Credito Generale, e uno sciame di banche minori. Ricostituito il sistema bancario italiano, con capitale soprattutto tedesco visto che le risorse italiane erano state distrutte in quei fallimenti, le banche private rifallirono nuovamente tutte nella seconda grande crisi intorno agli anni ’30 del Novecento (Banca Commerciale italiana, Credito italiano, Banco di Roma, Banca Toscana ecc.). Ed hanno poi continuato a sparire dal secondo dopoguerra ad oggi nella stessa misura, anche se in maniera più diluita nel tempo grazie a quel patto internazionale sul controllo dell’economia che doveva scongiurare le grandi crisi e che va sotto il nome di Bretton Woods (1944): Banco Ambrosiano, Banca Privata Italiana, Istituto Bancario Italiano, Banca d’America e d’Italia, Banca Nazionale dell’Agricoltura, Credito Lombardo, Banca Agricola Mantovana, Banca Cattolica, Banca Antonveneta, Banca 121, Credito commerciale ecc. non sono che un ricordo.
Ecco come erano diventate potenti le tre banche pubbliche di cui ho parlato. Piccole o grandi che fossero le crisi, loro vi arrivavano sempre in buona salute e rigurgitanti di liquidità: allora tutto arrivava sul mercato a prezzi di liquidazione e loro erano costrette (anche dalla Bankit, anche dal governo soprattutto quello fascista) a comprare scegliendo fior da fiore. Caro presidente se lo immagina lei cosa sarebbero diventate quelle tre banche in questa crisi se vi fossero arrivate come ci erano sempre arrivate prima, ossia come banche pubbliche ricchissime? Oggi sarebbero tra le massime banche d’Europa. E lei sa meglio di me cosa avrebbe significato per la nostra economia, per i nostri conti pubblici, se oggi avessimo potuto disporre di tre colossi del credito di livello continentale in salute di ferro, diventati forse i migliori e maggiori d’Europa.
GIULIANO AMATO E MASSIMO D’ALEMA, AQUILE DELLA POLITICA E DELL’ECONOMIA
Infatti nella tremenda crisi di questi anni e per la prima volta l’economia italiana non ha il paracadute delle banche pubbliche di un tempo, mentre i tre mega-gruppi privati che da quelle banche pubbliche discendono sono in forte sofferenza, il Gruppo MPS peggio degli altri. Sa chi dobbiamo ringraziare per ciò? Domanda retorica perché lei lo sa meglio di me: Giuliano Amato prima di tutti e poi Massimo D’Alema, i due Torquemada che guidavano negli anni ‘90 l’inquisizione privatizzatrice, e per questo in parte responsabili del fatto che da noi la crisi sia più grave che altrove. Gente sedicente di sinistra, di quella sinistra che per un secolo ha cercato di dimostrare, fallendo sempre, che il pubblico nell’economia fosse migliore del privato capitalistico. E cosa fanno i due, spalleggiati da Ciampi, Dini, Bankit, accademici famosi e grande stampa? Privatizzano le banche pubbliche, ossia l’unica dimostrazione che il pubblico può davvero essere migliore del privato e proprio nel campo che del capitalismo privato è il tempio. Che aquile della politica e dell’economia! E pensare che quei due abbiamo rischiato di averli oggi come capo del governo e/o capo dello Stato.
I SENESI CACCIATI DAL MONTE DEI PASCHI
Sa perché le dico queste cose? Perché di quelle tre banche “anomale” ridotte alla “normalità”, ossia privatizzate, la più anomala di tutte era il Monte. Perché è facile fare la grande banca a Torino e a Milano, le due capitali economiche del Paese. Ma a Siena? Si è mai domandato come sia stato possibile un fenomeno del genere? Una minuscola Città di 30-50mila abitanti, provincialissima, isolata materialmente e culturalmente nel profondo sud agricolo e mezzadrile della Toscana, che crea una banca di queste dimensioni! Anche senza tenere conto della sua longevità, credo si tratti di un caso unico al mondo. Una banca di queste dimensioni può vivere e crescere a Singapore, Francoforte, Londra o Milano, ma qui no. E allora? Un miracolo? Ma può un miracolo durare 500 anni? No, il Monte è così ed è qui per l’unica anomalia che lo distingue da ogni altra banca: qui c’era Siena e c’erano i Senesi. Tanto è vero ciò che quando quell’anomalia è stata rimossa e il Monte con la privatizzazione è stato privato di Siena e dei Senesi (altra geniale trovata della sedicente sinistra, che in realtà è un’altra destra dell’altra assai peggiore proprio perché si maschera da sinistra), ha cominciato subito a languire. E una banca “normale”, anzi normalizzata, di queste dimensioni in questo posto invece che a Singapore o Francoforte, senza i Senesi muore. Per non farla morire cosa farà, presidente, la porterà via? A Milano? O a Mosca, visto che con la sua personale posizione nella Sberbank lei ha anche una bel conflitto d’interessi? Guardi, a pagina 7 del “progetto”. Ci sono elencati i primi 20 personaggi del Monte, a partire da lei per finire con Menzi: credo che ci sia un solo senese (gli altri, come sono solito dire, sono tutti venuti giù con la piena) anche se la Fondazione in rappresentanza di Siena possiede un terzo del capitale del Monte. La Fondazione stessa soffre dello stesso “vizietto”: senese, sì, ma gestita da non senesi. Ma questi sono conti che non possiamo fare qui e che infatti faremo presto in sede politica.
Lo so, non si può tornare indietro, la banca non può tornare pubblica. E lei non può, anche volesse, restituirla alla gestione di quei Senesi che si sono dimostrati così buoni amministratori, almeno nella misura che lecitamente spetta loro. Sta ai Senesi cercare di recuperare almeno parte del loro ruolo, ovviamente nell’interesse della Banca. Sta a loro pretendere che vengano individuate le responsabilità di chi ha voluto che in poco più di un decennio essi siano stati cacciati dalla loro Banca in una sorta di pulizia etnica. Ma anche questo è argomento che va affrontato sul piano politico. Ed io farò il possibile affinché ciò avvenga.
P. S.: Spero che vorrà notare che si può parlare di economia e impresa usando esclusivamente la nostra lingua. Le banche le abbiamo inventate noi Italiani e per qualche glorioso secolo hanno dominato l’Europa e il Vicino Oriente. Non ritiene umiliante che per parlarne oggi noi si debba ricorrere alla lingua del Grande Padrone Bianco?