Silvia Tozzi interviene sulle eventuali candidature espresse dalle donne
SIENA. L’autonomia delle donne in politica ha una storia non facile. Durante la Resistenza, formazioni femminili si sono affiancate a quelle maschili con straordinario coraggio ed energia, combattendo il comune nemico nazi-fascista, ma non sempre hanno ottenuto i riconoscimenti che avrebbero meritato. Nel dopoguerra, l’UDI ha stretto un forte legame con i partiti della sinistra, lottando per l’emancipazione delle lavoratrici e lo stato sociale. Ma dal 1968 in poi, con l’affacciarsi del movimento femminista, si è manifestata una rabbiosa volontà di autonomia dalle organizzazioni maschili, sfociata per molte nell’esperienza del separatismo o nella cosiddetta “doppia militanza”. Negli anni Settanta, si è avuto il distacco dal Partito Radicale del gruppo femminista dell’MLD –che a Roma dette il via alla occupazione del “Governo Vecchio” da parte di una costellazione di gruppi divenuti storici. Ricordo che Lotta Continua dovette sciogliersi per gli attacchi delle militanti femministe alla dirigenza dell’organizzazione, e che nella stessa UDI si ebbero lacerazioni.
Nei successivi decenni la questione dell’autonomia ha continuato a riproporsi come un nodo non risolto, perché al crescere delle rivendicazioni femminili nei confronti del proprio ruolo sociale, non si è avuta una parallela crescita di autonomia nella politica. Oggi, nella deriva delle caste e dei partiti, è credibile che organizzazioni femminili propongano candidature in nome di loro tradizioni legate ai partiti? O non sarebbe preferibile che donne di valore potessero presentarsi in piena autonomia, senza il marchio di un partito, libere di affiancarsi a donne e uomini con cui condividono principi di responsabilità, onestà, impegno civile?
Silvia Tozzi