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Fondazione Mps: scacco matto alla città

La separazione da Siena ora ha toccato il fondo

di Mauro Aurigi

 

 

 

Nel lontano 1995, discutendo con l’amico Carlino Turchi sulla privatizzazione del Monte, me ne uscii in maniera molto lezza con questa frase: “Non serve a niente dichiarare, come fa il sindaco Piccini, che con il 100% delle azioni in mano alla Fondazione la Città sia ora formalmente e sostanzialmente proprietaria della Banca più di quando essa era pubblica. Non si tratta di azioni inalienabili: si possono tranquillamente vendere al mercato!” Lapidaria la risposta del Turchi: “L’organo genitale maschile (ma usò un’espressione più colorita) unn’ha spalle: se entra un pochino, poi entra fino in fondo”.  Ecco:  anche lui fu profetico, alla fine siamo arrivati al fondo.

 

Aspettavo dai Senesi, se non proprio critiche, almeno analisi argomentate su ciò che il nuovo statuto della Fondazione MPS significa per la Città. Invece niente, o quasi. Anzi ho trovato apprezzamento là dove la nota di Palazzo Sansedoni  dichiara che si è voluto riequilibrare la “rappresentanza di enti pubblici e privati diluendo la possibilità di una prevalenza dell’influenza politica nell’orientare le scelte politiche della Fondazione”. La frase non ha alcun senso o, meglio, ce l’ha ma è paradossale al limite del grottesco. E’ almeno da diecimila anni ‒ ossia da quando per la prima volta l’uomo da nomade è diventato stanziale costruendo la prime città nella cosiddetta Mezzaluna fertile ‒ che la vita sociale è stata non solo influenzata, ma addirittura determinata dalla politica. Senza politica la stessa Fondazione non solo non potrebbe essere gestita, ma neanche esisterebbe. Senza la politica torneremmo allo stato nomade, dediti solo alla caccia e alla raccolta dei frutti spontanei.

 

Quella dell’odierna demonizzazione della politica è una tipica sbornia all’italiana (pari a quella altrettanto devastante delle privatizzazioni, delle banche in primis) che sta invadendo ogni campo. E’ il segno di quanto la cultura nazionale sia regredita. Quando tra Duecento e Cinquecento il centro-nord della Penisola (e questa Città) era la vetta della civiltà umana, la politica era definita l’arte più nobile dell’uomo, ossia l’arte di gestire una società di uomini liberi solo sottomessi alle leggi che essi stessi si danno. E quella politica fu così efficace e fruttuosa per il bene pubblico che ancora oggi (dopo 800 anni!) il centro-nord del Paese è più evoluto del centro-sud. A Siena addirittura almeno l’80% della vita sociale, economica e culturale dipende ancora oggi da ciò che la politica di quegli “uomini liberi” ci ha tramandato. Ed ora siamo arrivati al punto di voler cacciare la politica da ogni dove e soprattutto, e questo è il colmo, da dove si amministrano fondi pubblici: niente meglio di ciò poteva illustrare la voragine culturale, madre di tutte le altre voragini (sociale, economica, politica ecc.) in cui il Paese e la Città sono precipitati. Infatti lasceremo alle generazioni future molto meno, forse addirittura niente, di quanto quelle passate hanno lasciato a noi.

HANNO CONFUSO LA “POLITICA” CON IL “PARTITO UNICO”?

Forse, come qualcuno ha obiettato, si è trattato di un lapsus: hanno detto “politica”, ma volevano dire “partiti” o addirittura “uomini di partito”. Insomma non l’influenza della politica sulla Fondazione si intendeva ridurre, ma quella dei partiti e dei loro esponenti. Può darsi. Ma è altrettanto probabile che non si sia trattato di un errore lessicale dovuto a ignoranza, ma di una ipocrisia obbligata. Infatti non avrebbero potuto parlare di nefasta influenza dei “partiti” perché a Siena quel termine significa “un partito solo”,  quello a cui tutti i deputati della Fondazione, quale che sia il loro orientamento, sono legati a filo doppio. E quindi significava anche indicare quel partito (e giustamente!) come unico e vero responsabile, insieme a loro, della catastrofica evaporazione in soli 14-15 anni dei 12 miliardi di valore contabile (ma in realtà una ventina di valore reale) del capitale iniziale della Fondazione. Ovviamente nessuno della Fondazione si è dimesso, anzi stanno ancora lì a pontificare di avere col nuovo statuto poste le basi per le magnifiche sorti e progressive della Fondazione. Cosa ne capiscano loro e il loro capo Mancini di “magnifiche sorti e progressive” di alcunché l’hanno abbondantemente dimostrato in questi anni di distruzione di ricchezza pubblica (ed anche con l’avere evitato accuratamente di criticare l’operato dei loro predecessori).

L’AUTONOMIA CHE HA CONSENTITO L’OPERAZIONE ANTONVENETA NON E’ SUFFICIENTE: NE VOGLIONO DI PIU’

Un altro aspetto del nuovo statuto che è stato sottolineato favorevolmente è stata la dichiarazione che si sia “rafforzato fortemente il concetto di autonomia”. Autonomia da chi? Ovviamente dal popolo, visto che il rinnovo dell’organo amministrativo è tutto a discapito degli enti territoriali. Forse agli estensori del nuovo statuto è sembrata poca l’autonomia con cui sono state autorizzate o approvate (e con quale entusiasmo!) gli investimenti suicidi fatti dalla “Banca Mussari” nella Banca 121 e nell’Antonveneta, per tacere del resto, autorizzate e entusiasticamente approvate col voto assolutamente determinante della Fondazione? Forse è perché coi lacci e laccioli del vecchio statuto non si poteva osare di più  (sennò chissà quali altri investimenti si sarebbero potuti escogitare!) che è stato necessario redigerne un altro evidentemente più permissivo? Qui nessuno sembra ricordarsi che fino alla privatizzazione (1995), ossia fino a quando gli enti territoriali locali (la politica) hanno avuto in mano la maggioranza assoluta delle nomine nella Banca, il Monte scoppiava di salute e di liquidità: quarta o quinta banca in Italia per dimensioni, prima in Europa per solidità. Allora sì che la sua autonomia era sorvegliatissima. Basti per tutte questa dichiarazione a “Il Sole, 24ore” del fiorentino Piero Barucci, economista all’Università di Firenze appena nominato presidente del Monte dei Paschi (1983): “Dieci minuti dopo che la Deputazione ha preso una delibera, se ne discute al bar del Nannini: ti senti il fiato del popolo sul collo”. Era il fiato della “politica”. Tant’è che fino ad allora la Banca era rimasta estranea a tutti gli scandali che hanno segnato la vita della giovane Repubblica Italiana. Poi, via via che col decrescere della quota di capitale in mano alla Fondazione decresceva anche il peso delle istituzioni territoriali (e quindi il controllo popolare, ossia della “politica”), cresceva quello degli uomini dei partiti e  cresceva di pari passo il numero e l’entità degli affari demenziali. Ma è così difficile, anche per menti men che normali, riuscire a capire la banale evidenza di un rapporto causa/effetto?

I MEMBRI PRO-TEMPORE DELLA DEPUTAZIONE PADRONI ASSSOLUTI DELLA FONDAZIONE?

E poi come si fa a pensare che il mondo delle imprese, delle università, della curia ecc., ossia dei “non-politici”  eufemisticamente definiti “società civile”, sia migliore, più leale, più pulito, più onesto del mondo della politica? Ma dove vivono gli estensori e gli ispiratori del nuovo statuto? In Nuova Zelanda? Ma li leggono i giornali? Oppure invece sanno come in realtà stiano le cose, ma hanno trovato il mezzo, approfittando della ottusa credulità della maggior parte della popolazione, di essere sempre più “autonomi” nel gestire come gli pare una (ormai residua) ricchezza che non appartiene loro ma alla comunità. Come per l’acqua anche per il Monte hanno trovato il modo per potere mettere le loro mani “private” su un bene comune.

A questo ultimo proposito si pensi all’assurdità di un criterio che assicura nelle mani di pochi amministratori pro-tempore (!) e ancorché in imminente procinto di tornare a più confacenti occupazioni, la totale discrezionalità sulle modifiche dello statuto di un Ente che invece è di proprietà pubblica. Potrebbero, per assurdo, decidere di rendere statutariamente vitalizio il proprio incarico e poi magari anche ereditario. E ciò mi fa venire in mente come è nata l’aristocrazia europea e italiana intorno all’anno Mille: in assenza di una sostanziale autorità statuale, gente rotta ad ogni violenza e sopruso, prima si impossessò di beni fondiari appartenenti a comunità laiche e religiose (ma anche a privati) dichiarandosene beneficiari a vita, poi ottenne che quel beneficio diventasse ereditario, e infine che fosse trasformato in loro proprietà privata. Era nato il feudalesimo e il latifondo (è lo stesso identico processo che ha consentito la potente crescite delle mafie italiane: saranno le aristocrazie del futuro se lo Stato perderà la sua stanca battaglia contro la criminalità organizzata). Siena è stata quella che è stata fino a una trentina d’anni fa un caso praticamente unico al mondo proprio perché vinse 7 o 8 secoli fa la sua battaglia contro l’aristocrazia feudale e rurale. Ora quella battaglia, come le vicende della Banca e della Fondazione suggeriscono, sembra che la stia perdendo. Senza speranza di rivincita.

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