"Ora che so’ vecchio anch’io, posso ben chiamatti così!"
di Mauro Aurigi
SIENA. Caro vecchio Monte, io ero destinato a te. Il 10 gennaio del 1939, dopo i mi’ primissimi vagiti, la mi’ mamma, classe 1910, saputo che il su’ primo figliolo era un maschio, sentenziò: “Bene, ci si fa un impiegato del Monte!”. Lei, donna colla terza elementare ma straordinariamente volitiva, brillante e preveggente, aveva ereditato tutto ‘l carattere del su’ babbo, il mi’ nonno, un anarchico diventato socialista, ma aveva ereditato soprattutto il carattere del su’ nonno. Quest’ultimo doveva davvero esse ’na persona parecchio strana: prete in una bigotta Toscana ancora pigramente lorenese, decise di spretassi. Così fu mandato via di casa e diseredato pe’ sempre dalla ricchissima famiglia. Poi, pe’ fortuna, arrivarono i bersaglieri savoiardi, notoriamente anticlericali, per cui lui si poté sposà. Sennò io unn’avrei potuto esse qui a raccontà questa storia.
E torniamo allora a mamma Palmira (nome strano, ma che faceva il paio, quanto a stranezza, con quello del marito, Candido, ma allora era normale: c’era uno che si chiamava addirittura Amintore!). Determinata com’era, mi portò alle scuole elementari del Saffi direttamente in seconda classe, considerando la prima superflua per un cittino-genio destinato al Monte. Saltata la prima elementare, mi diceva lei, al Monte avrei avuto un anno di vantaggio nella carriera di bancario rispetto a’ mi’ colleghi coetanei. E consegnandomi al maestro Pellegrini precisò: “E mi raccomando maestro, lo picchi, lo picchi, ma lo picchi!” (sic!), raccomandazione tuttavia superflua visto che i maestri allora picchiavano senza tanto bisogno d’incoraggiamento. Quella seconda elementare era infatti fatta da ben 42 teppisti di strada, tutti maschi e quasi tutti co’ alle spalle la recente esperienza del passaggio del fronte. Mi ricordo che la classe era un poco più calma il sabato, quando i maestri, ancora secondo l’usanza del sabato fascista, si presentavano a scuola calzando pesanti e “dolorosi” stivali di cuoio che così facevano il paio colla tradizionale e “legittima” bacchetta di bambù.
LA MAMMA MANESCA
Comunque le mamme d’allora erano tutte manesche e picchiavano con una solerte e a volte argomentata ma, alla resa de’conti, benemerita passione. Ummi posso dimenticà come una volta, picchiandomi di santa ragione, la mia berciasse: “Prima il mi’ babbo, poi i mi’ fratelli (ben cinque!), poi il mi’ marito. Ora ci mancherebbe altro che anche i mi’ du’ figlioli maschi mi mettessero i piedi sul collo!”. Grande, amatissima, indimenticabile e indimenticata mamma! Religiosissima ma contemporaneamente anti-clericale di ferro, degna erede di cotanto avo!
Fu così che riuscì a fammi cresce tanto celermente e tanto bene che a diciott’anni, novello ragioniere, grazie ai voti riportati all’esame di Stato, mi chiamasti, caro Monte, e mi spedisti a Montevarchi. Ovviamente mamma Palmira volle venì anche lei a presentammi al direttore Jacobelli di quella filiale e quasi ebbi paura che ripetesse la raccomandazione di picchiammi in caso di mi’ errori. Invece disse solo che consegnava il su’ figliolo al Monte e che d’allora in avanti la mi’ vita sarebbe stata solo mia. Fu così che a diciott’anni uscii dalla classe operaia e entrai da te a Piazza Salimbeni.
42 ANNI VISSUTI COL MONTE
Quell’esperienza ancora oggi mi condiziona: il Monte d’allora, se uno ti pigliava in forti dosi come ti pigliai io, era uno strumento privilegiato pe’ capì come funzionasse il mondo. E io ne feci tesoro. Ma i primi vent’anni di carriera l’ho passati soprattutto a criticà – anche col sindacato – il vecchiume e i vecchioni che ti guidavano, senza capì che invece erano loro, senza volello, a trasformà me e il mio modo di vedé, no a vedè solo te, vecchio mio, ma anche a vedè la vita. Così “trasformato” ho vissuto i successivi vent’anni sentendomi montepaschino a 360 gradi, e tale restando fino alla pensione (e anche dopo!).
Un esempio, tra i tanti, di quella formazione.
Poco più che ventenne, in servizio alla novissima filiale di Bari, un giorno scopersi i manifesti del Credito Italiano, grande banca IRI, che pubblicizzavano ‘l “credito personale”, che unn’ era nient’altro che quel “Piccolo prestito” che te pe’ primo, e da tempo ormai, avevi inventato (fin’allora i privati un potevano gòde de’ prestiti bancari se non pe’ mutui ipotecari). Quello era stato un ottimo investimento, assai redditizio sul piano economico, sia pe’ te che pe’ i tu’ clienti, con insoluti vicino allo zero, mentre in altri settori le insolvenze su’ crediti arrivavano anche al 10%. Ma te unn’avevi neanche minimamente pensato di facci sopra la pubblicità.
CHE GENTE QUELLA CHE AMMINISTRAVA ALLORA IL MONTE!
Così alla prima occasione che capitai a Siena andai molto arditamente dal vice capo dello Sviluppo, Barbini, pe’ chiede se un fosse ‘l caso di fa’ anche noi la pubblicità a’ nostri Piccoli prestiti, visto che quel prodotto te l’avevi inventato pe’ primo. E magari, aggiunsi, anche pubblicità pel Monte in generale, visto che, e era vero, a Bari quasi nessuno aveva mai sentito parlà di te. Pe’ questo capitava che l’assegni di conto corrente de’ nostri clienti o anche i nostri assegni circolari, un venissero accettati in pagamento. Capitò addirittura che ‘l direttore del grosso stabilimento della birra Prinzbrau, un tedesco a cui s’era chiesto un incontro pe’ allaccià rapporti, ci cacciasse via quasi berciando: “io laforare con banca, no con istituto!…”.
Ma questa fu la risposta secca del Barbini alla mi’ richiesta: “Incentivare l’indebitamento delle famiglie è amorale, noi non lo faremo mai. Siamo qui e quando la gente ha bisogno non ha che da varcare il portone d’ingresso. Quanto alla pubblicità: serve solo a far vendere prodotti poco buoni che altrimenti non si venderebbero. I nostri prodotti sono buoni, per cui non hanno bisogno di essere reclamizzati. A noi la pubblicità ce la devono fare i nostri clienti“. Caro direttore Barbini: 130 e lode! Infatti poi a Bari, caro Monte, diventasti la banca più affermata e anche più “affettuosa”: la pubblicità ce la faceva i nostri clienti. Caro Monte, t’assicuro che io da quel giorno, personalmente, unn’ ho più comprato prodotti reclamizzati dalla pubblicità.
E POI ARRIVO’ LA FINE
Che di’? Colla privatizzazione del 1995 cominciasti davvero a svecchià e, ovviamente, a mette sul mercato prodotti non boni. Fu quindi necessario ricorre a una costosa propaganda. Te lo ricordi ‘l Pavarotti? D’allora, caro Monte un ti sei più ripreso, come tutti si sa.
Sì, pe’ me, caro vecchio Monte, se’ stato una scuola di vita. E’ soprattutto pe’ questo che ora, ultraottantenne, mi ritengo sempre un privilegiato sì, ma co’ un’inestinguibile e feroce rabbia pe’ gli sciaborditi che t’hanno privatizzato e rovinato (e co’ te anche la città). E ora sto qui, sulla proda del fiume a aspettà che passino presto tutt’i cadaveri di quelli che t’hanno voluto male, anzi che c’hanno voluto male.
Tuo Mauro Aurigi, senese (se un si fosse capito).