Lettera aperta a quelli del mantra “Siena deve cambiare!”
di Mauro Aurigi
SIENA. Carissimi (si fa per dire) politicanti della pseudo-sinistra e della destra verace, che da due o tre decenni ci tormentate col vostro mugugno “Siena deve cambiare”: SMETTETELA!
IL PAESE DELLE SBORNIE
C’è della stupidità in quella vostra perentoria affermazione, o quanto meno della superficialità o peggio dell’ipocrisia. Perché sembra che non vi rendiate conto – ma forse ne siete consapevoli e vi sta bene così – che Siena l’avete già cambiata. Era ricca ed ora è povera, con un futuro che si prospetta perfino peggiore. Era orgogliosamente autorevole con le sue straordinarie, potenti istituzioni che risalivano al periodo comunale ma oggi tutte più o meno devastate: Banca, Spedale, Università per citare le maggiori. Ed ora invece non conta più niente. Era fiera del suo repubblicanesimo anarchico (“Noi un s’ha padroni e si fa come ci pare!”). Ora geme sotto il tallone del potere alieno. Come potete sperare che vi si lasci liberi di scorrazzare ancora?
Quella del “Siena deve cambiare” è stata come una sbornia, per cui, una volta passati i fumi dell’alcole rimane solo un permanente, doloroso mal di testa e di pancia. Del resto il nostro è il Paese delle sbornie collettive che la classe dirigente instilla nel popolo, subito da questi assecondata. Fu così con la retorica patriottarda e unitaria dell’800, poi con quella nazionalista immediatamente seguente, quindi la tragedia fascista, e poi la sbornia per l’unitarismo europeo, che forse ci ha affossato per sempre per come frettolosamente e senza riserve lo abbracciammo. Quanto ci costano le vostre sbornie! E ce ne furono anche di minore portata, come il maggioritario a tutti i costi o come le privatizzazioni a tappeto. Vedasi in particolare quella del Monte dei Paschi nel 1995, sulla quale mi soffermo perché è stata per voi apprendisti stregoni (v. Wikipedia) l’asso nella manica per cambiare Siena.
PRIVATIZZARONO IL MONTE TRA I FUMI DELL’ALCOLE
Ecco come funzionò allora quella sbornia obnubilante. Partì dal governo e dintorni: Amato, Ciampi, Dini, D’Alema, Visco, Turci ecc., per tacere degli apprendisti stregoni locali tra i quali Spinelli e Starnini (ricompensati) e Piccini (invece punito perché diventò privatizzatore in ritardo, anche se fu decisivo), l’arcivescovo dell’epoca, quindi tutto il centro e la destra nazionali e locali (particolarmente virulente FI e Lega nord), e poi decine di noti accademici parrucconi: Spaventa, Cappugi, Imbriani …, perfino un certo Marcello Clarich (*) dell’Università di Siena col quale chi scrive polemizzò su la Repubblica. Quindi il fronte compatto di tutta la stampa locale e nazionale, i sindacalisti e la Confindustria. Tutti starnazzavano all’unisono perché il sistema bancario italiano era in mano alle banche pubbliche (sia detto per inciso: erano le più solide d’Europa e il Monte più solido di tutte) definite da quel genio di Amato “foresta pietrificata” e “palla al piede dell’economia nazionale”. La sbornia era così forte che nessuno di queste aquile del pensiero economico italiota riuscì a (o volle) capire che le banche in Italia erano soprattutto pubbliche perché quelle private erano soprattutto fallite nelle grandi e piccole crisi economiche susseguitesi dalla fine dell’800 a quella del 900. Era il fallimento della banche private che rendeva ricche e potenti le banche pubbliche, le quali invece, sotto il controllo diretto o indiretto del loro territorio, arrivavano a quelle crisi in ottima salute potendo così servirsi a discrezione. Insomma le crisi economiche che erano fatali per le banche private italiane, invece erano una manna per quelle pubbliche.
SENZA LE BANCHE PUBBLICHE E’ PIU’ DIFFICILE USCIRE DALLA CRISI
Non ci voleva un duro lavoro di ricerca per capirlo. Ma avevano tutti bevuto troppo. Ma forse no: siccome non c’erano più banche private nei cui fallimenti sguazzare, non c’era altro rimedio che privatizzare quelle pubbliche e aspettare. Il fatto è che dopo la privatizzazione delle banche pubbliche la situazione economica nazionale, invece dell’evoluzione positiva predicata dal fronte compatto dei privatizzatori, cominciò immediatamente a precipitare. Fino alla drammatica crisi attuale, la quale ha un carattere diverso rispetto a quelle che l’hanno preceduta: le manca l’ombrello protettivo delle banche pubbliche che aveva assistito l’economia nazionale nelle crisi precedenti. Infatti oggi tutte le banche principali, anche quelle ex-pubbliche, sono tecnicamente fallite. Ecco perché per noi è così difficile uscire dalla recessione.
Sembra che solo un gruppetto di senesi, riuniti nell’Associazione per la difesa del Monte (**), fosse l’unico in Italia (forse era vero) a sostenere nel 1995 che quelle privatizzazioni fossero criminali. Arrivammo fino a la Repubblica (Carlo Clericetti e Vittoria Puledda) e fino al Manifesto (Valentino Parlato), che per un po’ ci ospitarono o diventarono dialettici con le nostre tesi, poi ci abbandonarono: brilli del tutto! Lo stesso fece Nesi di Rifondazione. Solo Marcello De Cecco, fortunosamente da me raggiunto alla Sapienza di Roma, ci dette ragione, ma non poteva intervenire perché, disse, la sua poteva apparire come una ritorsione verso la classe dirigente senese che anni prima lo aveva costretto a lasciare la Deputazione del Monte poco dopo avercelo messo. Ma aggiunse una cosa che mi piace ricordare perché dà un senso a tutta la vicenda. Disse: “Sono sbarcato a Siena come studente nel 1957, al tempo di Natale, proveniente da un villaggio montano d’Abruzzo che avevo lasciato pieno delle tradizionali luminarie. A Siena invece niente, neanche un cenno di addobbo nelle vetrine e meno che mai nelle strade. Questa è gente di un’intelligenza superiore, mi dissi”. Alla fine del racconto mi guardò per un attimo ironico e concluse: “Dopo ho capito di essermi sbagliato”. E con questo mi dette il benservito (anche lui si era accorto che i Senesi sono dei coglioni).
E ora, neanche 20 anni dopo, tutte le maggiori banche private, anche quelle ex-pubbliche, sono di nuovo tecnicamente fallite. E dopo?
Carissimi politicanti, quanto ci cono costate le vostre sbornie!
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(*) Ironia della storia: dopo essersi battuto venti anni fa per la privatizzazione del Monte (20 miliardi il suo valore stimato allora – quindi 20 miliardi il valore iniziale della Fondazione – ma in proiezione forse 40 o 50), oggi il Clarich è stato incaricato dai soliti poteri ad amministrare nella Fondazione MPS i miserabili, ridicoli rimasugli di quello che era stato uno dei più cospicui patrimoni del Continente. Senza vergogna. Anzi.
(**) Nel 1995 propose per tre volte il referendum cittadino contro la privatizzazione, sempre pretestuosamente respinto dalla casta, e dopo la privatizzazione fece immediatamente ricorso al TAR perché di nome e di fatto il Monte era proprietà erariale della Città, non dello Stato. Il TAR 11 anni dopo volle sapere se eravamo ancora interessati all’esito del ricorso: non rispondemmo neanche.