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Set Aside

E i giochi con le parole che fanno tanto "italiano"

di Silvana Biasutti

SIENA. Sì, sono quella delle lenticchie, e sul filo di questa mia (insana) passione vorrei condividere un ragionamento con chi legge.

Dunque, spiluccando qua e là nella rete, sulla stampa e alla radio, ho appreso che si vuole combattere l’italian sounding: sapete di certo di che si tratta. Per secoli, senza esagerare, il nostro paese, grazie alla sua orografia, al naturale raggruppamento per distretti (leggersi a questo proposito l’immenso Beccattini, economista pratese illuminato), cioè luoghi come fossero contee in cui il clima, il disegno della terra e la contigua matrice culturale (in senso vasto) hanno fatto crescere un’economia originale, legata alle specifiche qualità del territorio e ai talenti artigianali dei residenti, nonché una poetica che ha generato artisti e opere, che a loro volta è stata (e dovrebbe / potrebbe tutt’ora) nutrimento per il lavoro manifatturiero di quel distretto che ha così acquisito quella qualità speciale definita generalmente fino a oggi – senza che nessuno tentasse di lavarci la bocca con il sapone – made in Italy. Queste tre parolette hanno suggestionato il colto e l’inclita di qua e di là del vasto oceano, perché sono riuscite a formare una sorta di inestricabile tessitura i cui fili sono (soprattutto erano) clima, carattere, talento, passione, storia, manualità, materie prime, eccetera. Tutto ciò fino a un “ieri” che non so bene datare e che in realtà non ha una data ben precisa, ma accade – a mio parere e frammenti di ricordi me lo confermerebbero – nell’ultimo quarto del secolo scorso.

Confesso che non ho le forze per riassumere nello spazio di queste righe com’è avvenuto l’azzoppamento di questo concetto, che ha nutrito la nostra economia e che si è nutrito a sua volta di tutto quello che in Italia ha concorso a crearlo, tuttavia vorrei fare il punto o forse segnalare alcuni punti, alcune zeppe paradossali che lo mettono a repentaglio e che comunque ne hanno minato la credibilità – certo, con l’aiuto del governo europeo, nella distrazione dei nostri politici non proprio coltissimi, con il supporto decisivo di una farabuttaggine diffusa, che da noi si materializza negli sciacalli menefreghisti del bene comune che non esitano a sputtanare i nostri prodotti producendo male, a volte taroccando, altre volte smentendo nei fatti e negli ingredienti ciò che promettono ai clienti a parole (o in etichetta); altrove la succitata farabuttaggine diviene molto concreta con la proposta di prodotti che danno in qualche modo l’idea di avere un imprinting italiano –: ecco servito dunque l’italian sounding!

Negli scaffali di tutto il mondo si possono trovare prodotti di ogni genere e tipo (dal food allo pseudo lusso) che sanno di Italia; si sprecano le mamas, i borgo, e i poggio; persino mafia è diventata una parola, tra le migliaia abusate in tutti i paesi del mondo, che fa Italia: chissà perché.

Sono almeno trent’anni che sento parlare, anzi che leggo, sulla stampa specializzata, di questo cancro – inizialmente considerato quasi benevolmente un segno di attenzione nei nostri confronti – che ha sottratto al paese ogni anno decine di miliardi di fatturato; lo ha potuto fare perché nel nostro paese di ahimé recente alfabetizzazione (non sempre ben digerita e praticata), solo chi si occupava di pubblicità si preoccupava di tutelare le parole – prima di tutto che corrispondessero ai fatti – perché le parole, o meglio la sequenza delle parole giuste dovevano nominare “la cosa”, in modo da distinguerla dal resto del mondo, per funzioni e per qualità specifiche e originali, pena la perdita di un’identità indispensabile a battere la concorrenza. Ma questo lo sapevano solo in pochi.

In Italia, inoltre, talvolta le parole specifiche coincidevano con i toponimi, ma fino a poco tempo fa, se uno si permetteva di accennare a questa categoria, la politica pareva più incline a derattizzare che a tutelare quello che a mio modo di vedere è un grande e delicatissimo patrimonio. (Il Gorgonzola nasce a Gorgonzola, che è un paesone fuori Milano; il Grana Padano viene – dovrebbe – prodotto con latte di vacche che pascolano nella pianura padana e non altrove).

Insomma un po’ ignari, un po’ furbi, un po’ egoisti fino alla farabuttaggine abbiamo dilapidato, o fortemente incignato, ‘sto patrimonio incompreso. Incompreso finché arriva qualcuno che, forte della distrazione generale se ne appropria, magari ‘solo’ per governarlo. E allora per tutelare, supportare, difendere, il made in Italy si pensa di cambiare parolette, cambiare espressione – chissà che un’altra breve sequenza di parole sia meno espugnabile, avrà pensato colui che l’ha pensato – perché ora l’importanza della parola è stata scoperta e ora si scopre che la parola serve a piegare la verità a proprio uso e consumo. Perciò si può scoprire che magari se uno definisce il proprio prodotto di “qualità italiana”, magari può comprare la materia prima altrove – per esempio in un paese dove c’è qualcuno che glielo cede a un prezzo molto più basso di quello che si otterrebbe dallo stesso prodotto fatto in Italia – poi però con l’uso acconcio di parole usate ‘ad arte’ può riproporlo ad un prezzo sostenuto, perché anche se la materia prima non proviene dall’Italia però chi lo commercializza lo presenta come frutto della “qualità italiana”. Lenticchia docet, ma anche l’extra vergine di olive turche o tunisine. Nello specifico le lenticchie vengono comunque packed nel sito noto per quel legume – il nome sarà scritto ben grande e le oche giulive saranno soddisfatte: chi va a leggere il timbro ‘Origine Canada’ sulla parte trasparente del contenitore? La verità così è salva e anche in questo caso si fa dell’italian sounding.

Poi mi capita di leggere sul documento di un’associazione che la conformazione del nostro paese impedisce all’agricoltura di soddisfare quantitativamente le richieste di materie prime da trasformare e allora mi chiedo dov’erano quelli che fanno questa affermazione quando (fino al 2008!) il nostro paese ha sopportato e supportato la politica europea del set aside che pagava gli agricoltori perché stessero con le mani in mano, lasciando andare a rotoli l’agricoltura e suggerendo subliminalmente che il non fare rende.

Questa è una tra alcune domande che mi pongo – in questo momento, per molti versi drammatico – rilevando come l’Italia abbia letteralmente buttato via la propria potenzialità di creare prodotti unici (per sapore e per ricetta, parlando di agricoltura), per mettersi ora a rilanciare solo le parole che ‘chiamano’ quei prodotti. E non mi sembra che questo approccio sia così furbo da creare un aumento dei posti di lavoro.

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