Un incontro per stimolare idee, a Montalcino il 15 luglio
di Silvana Biasutti
SIENA. Viene subito in mente Naomi Klein con il suo No Logo (su qualche remoto scaffale tra i libri di un tempo che pare lontano: sono passati quindici anni), e la sua brillante analisi sulle dinamiche del branding e relativi risvolti sociali. Ma ricordo bene anche molti degli uomini che si sono occupati dei marchi italiani – a partire da Gabriele d’Annunzio con “la Rinascente”, Bob Noorda e Massimo Vignelli autori dei più bei marchi nostrani, o Lora Lamm, per finire con Benetton, o con Della Valle i suoi fortunati Tod’s e Hogan – imprenditori e creativi tutti sensibili e consapevoli dell’importanza della forma in quanto comunica dei contenuti tangibili, ma anche intangibili, cioè valori alti in grado di parlare al mondo intero
“Ma poi che cos’è un marchio?”. Forse qualcuno se lo chiederà; perché molti cosa sia un marchio non lo sanno e non ne distinguono le caratteristiche rispetto a un nome proprio, a un toponimo, a una denominazione …
E purtroppo, oggi, i più si limitano a chiedere “quanto vale” un marchio; scrivo purtroppo perché è un ragionamento scorciatoia che ha impedito finora – prima – di capire che i marchi sono la spina dorsale del nostro lungo (e fragile) paese e – poi, di conseguenza – di adottare gli accorgimenti per tutelarli.
Invece, un lungo rosario di marchi di prestigio – tra cui, solo cito i primi che mi vengono in mente al momento, Gucci, Loro Piana, Indesit, San Pellegrino, Fiat, Perugina – è emigrato verso un destino che magari garantirà la prosecuzione dell’attività e il successo (tradotto in soldoni), ma che inevitabilmente spezza il filo dell’appartenenza a una cultura che è il cuore stesso del made in Italy.
Che questo esodo di massa, più simile a un’emorragia che a un viaggio in cerca di fortuna, sia un fenomeno legato alla globalizzazione, o che sia figlio della finanza ‘che ha sostituito il lavoro’, poco importa; perché, come sempre, ciò che conta è la consapevolezza; capire perché ciò accade consente (consentirebbe), non tanto di impedire, ma di governare il fenomeno.
Ma sono ancora poche le imprese che si affidano alla ricerca, cioè a indagare che cosa fa il successo del loro corporate e dei loro brand; che si domandano quanto e cosa e come e quali siano gli elementi che permettono loro di sopravvivere alle componenti della proprietà, al management, al tempo che trascorre, al mondo che cambia, alle mode … ah sì ecco, per esempio: le mode. Quanti capiscono quant’è rischioso essere di moda, quanti sanno qual è il momento in cui bisogna intervenire, quanti percepiscono l’importanza di essere semplici (e comprensibili, e possibilmente onesti) per durare? E poi, è così imprescindibile essere identici nel tempo o non è forse meglio un’adattabilità dinamica – come dice l’adottato motto – “tempora mutantur et nos mutamus in illis”? E perché questo adattarsi ai tempi che mutano – e dio solo sa quanto essi siano mutevoli! – ma senza troppo cedere della nostra identità, è così strategico, fino a divenire nei casi migliori una vera e propria seconda natura, per proseguire nel viaggio di un’impresa?
Nell’italietta che ha tirato a campare contando sullo ‘stellone’ che la proteggeva pochi (perché costretti) si sono posti domande come queste o come quelle negli immediati dintorni. Ma oggi non si può più contare sulla benevolenza degli dei (o dello stellone) e sull’auto compiacimento, sul genio italico (che appare un po’ frusto a leggere le cronache), e forse nemmeno più totalmente sul genius loci, in tempi in cui una crescente fetta di quelli che contano non hanno legami autentici con quello che fanno.
Perché questo è un marchio: significa ciò che sei, nel tempo (non in mezz’ora e nemmeno in un mese). Un marchio è la tua storia – all’inizio – poi, con il tempo, diventa il modo in cui tu sei capace di raccontarla: dicendo la verità (perché oggi tutto è documentato e documentabile; tutto è risaputo e dire bugie è possibile, forse, ormai solo in amore), e il modo in cui tu ti comporti.
E se è vero che per un italiano medio, come chi scrive, per esempio, comprare una Fiat resta ancora qualcosa che si dice (e si fa), è anche vero (attenzione!) che nella sua testa, giorno dopo giorno, il marchio Fiat (Fabbrica Italiana Automobili Torino) sta perdendo quell’appeal (quel significato) che negli anni e nei decenni ha tenuto la Fiat al centro dell’immaginario degli italiani, inchiodati anche dallo sguardo magnetico di Gianni Agnelli e dimentichi dei costi della cassa integrazione; la ragione di ciò la conosciamo e la leggiamo quotidianamente.
Ma che cos’è un marchio e come funziona e perché è importante che sia lindo e conosca l’uso di mondo e abbia un’allure che comunichi semplicità ma anche cosmopolitismo, e solidarietà e comunanza di interessi (e immediatezza!) lo si può imparare sui testi sacri di sociologi e ricercatori, oppure acquisire semplicemente scorrendo i grandi e piccoli (ma preziosi) marchi italiani. Parlarne serve anche per imparare ad averne cura; aver cura dei nostri marchi è un po’ anche amare il nostro paese.
E quanto conta “il disegno di un marchio” che deve tradurre visualmente ciò che dice ed essere in grado di comunicarlo con un segno lo sanno i grandi designer e solo qualche (grande) pubblicitario come Gavino Sanna o Lorenzo Marini. E quanto impegno richieda gestire un marchio ai tempi global, lo sanno (per fortuna ce ne sono ancora) gli imprenditori e i manager consapevoli!
SIENA. Viene subito in mente Naomi Klein con il suo No Logo (su qualche remoto scaffale tra i libri di un tempo che pare lontano: sono passati quindici anni), e la sua brillante analisi sulle dinamiche del branding e relativi risvolti sociali. Ma ricordo bene anche molti degli uomini che si sono occupati dei marchi italiani – a partire da Gabriele d’Annunzio con “la Rinascente”, Bob Noorda e Massimo Vignelli autori dei più bei marchi nostrani, o Lora Lamm, per finire con Benetton, o con Della Valle i suoi fortunati Tod’s e Hogan – imprenditori e creativi tutti sensibili e consapevoli dell’importanza della forma in quanto comunica dei contenuti tangibili, ma anche intangibili, cioè valori alti in grado di parlare al mondo intero
“Ma poi che cos’è un marchio?”. Forse qualcuno se lo chiederà; perché molti cosa sia un marchio non lo sanno e non ne distinguono le caratteristiche rispetto a un nome proprio, a un toponimo, a una denominazione …
E purtroppo, oggi, i più si limitano a chiedere “quanto vale” un marchio; scrivo purtroppo perché è un ragionamento scorciatoia che ha impedito finora – prima – di capire che i marchi sono la spina dorsale del nostro lungo (e fragile) paese e – poi, di conseguenza – di adottare gli accorgimenti per tutelarli.
Invece, un lungo rosario di marchi di prestigio – tra cui, solo cito i primi che mi vengono in mente al momento, Gucci, Loro Piana, Indesit, San Pellegrino, Fiat, Perugina – è emigrato verso un destino che magari garantirà la prosecuzione dell’attività e il successo (tradotto in soldoni), ma che inevitabilmente spezza il filo dell’appartenenza a una cultura che è il cuore stesso del made in Italy.
Che questo esodo di massa, più simile a un’emorragia che a un viaggio in cerca di fortuna, sia un fenomeno legato alla globalizzazione, o che sia figlio della finanza ‘che ha sostituito il lavoro’, poco importa; perché, come sempre, ciò che conta è la consapevolezza; capire perché ciò accade consente (consentirebbe), non tanto di impedire, ma di governare il fenomeno.
Ma sono ancora poche le imprese che si affidano alla ricerca, cioè a indagare che cosa fa il successo del loro corporate e dei loro brand; che si domandano quanto e cosa e come e quali siano gli elementi che permettono loro di sopravvivere alle componenti della proprietà, al management, al tempo che trascorre, al mondo che cambia, alle mode … ah sì ecco, per esempio: le mode. Quanti capiscono quant’è rischioso essere di moda, quanti sanno qual è il momento in cui bisogna intervenire, quanti percepiscono l’importanza di essere semplici (e comprensibili, e possibilmente onesti) per durare? E poi, è così imprescindibile essere identici nel tempo o non è forse meglio un’adattabilità dinamica – come dice l’adottato motto – “tempora mutantur et nos mutamus in illis”? E perché questo adattarsi ai tempi che mutano – e dio solo sa quanto essi siano mutevoli! – ma senza troppo cedere della nostra identità, è così strategico, fino a divenire nei casi migliori una vera e propria seconda natura, per proseguire nel viaggio di un’impresa?
Nell’italietta che ha tirato a campare contando sullo ‘stellone’ che la proteggeva pochi (perché costretti) si sono posti domande come queste o come quelle negli immediati dintorni. Ma oggi non si può più contare sulla benevolenza degli dei (o dello stellone) e sull’auto compiacimento, sul genio italico (che appare un po’ frusto a leggere le cronache), e forse nemmeno più totalmente sul genius loci, in tempi in cui una crescente fetta di quelli che contano non hanno legami autentici con quello che fanno.
Perché questo è un marchio: significa ciò che sei, nel tempo (non in mezz’ora e nemmeno in un mese). Un marchio è la tua storia – all’inizio – poi, con il tempo, diventa il modo in cui tu sei capace di raccontarla: dicendo la verità (perché oggi tutto è documentato e documentabile; tutto è risaputo e dire bugie è possibile, forse, ormai solo in amore), e il modo in cui tu ti comporti.
E se è vero che per un italiano medio, come chi scrive, per esempio, comprare una Fiat resta ancora qualcosa che si dice (e si fa), è anche vero (attenzione!) che nella sua testa, giorno dopo giorno, il marchio Fiat (Fabbrica Italiana Automobili Torino) sta perdendo quell’appeal (quel significato) che negli anni e nei decenni ha tenuto la Fiat al centro dell’immaginario degli italiani, inchiodati anche dallo sguardo magnetico di Gianni Agnelli e dimentichi dei costi della cassa integrazione; la ragione di ciò la conosciamo e la leggiamo quotidianamente.
Ma che cos’è un marchio e come funziona e perché è importante che sia lindo e conosca l’uso di mondo e abbia un’allure che comunichi semplicità ma anche cosmopolitismo, e solidarietà e comunanza di interessi (e immediatezza!) lo si può imparare sui testi sacri di sociologi e ricercatori, oppure acquisire semplicemente scorrendo i grandi e piccoli (ma preziosi) marchi italiani. Parlarne serve anche per imparare ad averne cura; aver cura dei nostri marchi è un po’ anche amare il nostro paese.
E quanto conta “il disegno di un marchio” che deve tradurre visualmente ciò che dice ed essere in grado di comunicarlo con un segno lo sanno i grandi designer e solo qualche (grande) pubblicitario come Gavino Sanna o Lorenzo Marini. E quanto impegno richieda gestire un marchio ai tempi global, lo sanno (per fortuna ce ne sono ancora) gli imprenditori e i manager consapevoli!