Con il pensiero rivolto al nuovo provveditore...
SIENA. Serve andare fino a Milano per scoprire l’Italia? Non quella masticata dalla politica, ma quella – imperfetta e bellissima – che i guasti dell’arrivismo, le mafie, la corruzione (e la conseguente tolleranza delle infinite disonestà ‘tipiche’, piccole e grandi) hanno appannato e ciancicato ormai anche nell’immaginario dell’ahimè universo mondo. Serve, sì, se si va a incontrare uno che l’ha descritta come sublime fusione di pensieri, gesti e paesaggio, senza soluzione di continuità tra essi e usando la luce per illuminare la passione che emanano i volti (“… e ora ha Giotto il grido …”).
Non serve se non si ha chiaro negli occhi e nella mente il capitale che viene quotidianamente sciupato – dagli italiani – e se non se ne comprende il valore immenso (sì, anche economico, ma dopo tutto il resto!).
Andare fino a Milano (non c’è solo Expo) può servire anche per constatare che conoscenza, esperienza e conseguente competenza (in luogo della tessera di un partito) restituiscono allo sguardo e alla mente terra e gente che uno ha vissuto dal vivo, incontrato e camminato quotidianamente, sapendo che sono lì, ma rischiano di sciogliersi come neve al sole di questa estate torrida e crudele. Visiti “Giotto, l’Italia”, a Palazzo Reale e ti viene in mente la sistemazione dei capolavori nella Pinacoteca Nazionale a Siena, o gli strattonamenti della politica per il complesso del Santa Maria della Scala, il cui messaggio – oggi di drammaticamente rinnovata attualità – è annichilito da meri interessi di business (o almeno così pare).
Poi leggo su un quotidiano una ‘cartolina’ di Franco Arminio – “A settembre si smontano i paesi” – e il patrimonio che tralasciamo diventa immane e quasi inafferrabile, e si è colti da sgomento per il paradossale sciupio di energia, di bellezza (e, sì, anche di denaro!) costituito da comuni, frazioni e frazioncine che formano un tesoro disseminato – provinciale, regionale, nazionale – che anziché essere posti così come sono all’attenzione dei privilegiati intelligenti assetati di bellezza (non-solo-vino-e-nemmeno-solo-pecorino), sono stati e sono ancora (nonostante alcune lodevoli eccezioni e prese di consapevolezza) terra dove si immagina di tutto, fuorché ciò che asseconderebbe la loro ‘valorizzazione’; ‘valorizzazione’ pensata ancora come sfruttamento da parte di pochissimi che magari stanno altrove, a svantaggio delle comunità che vivono nei luoghi.
Arminio, un materano (se non erro) che si sta dedicando a ripopolare una rete di piccoli villaggi nei suoi luoghi, scrive dello smontaggio, a fine stagione, di banchetti e gazebo che hanno ospitato fiere e kermesse, sagre e notti più o meno bianche dando vita a una girandola estiva a uso di un turismo che sniffa l’aroma di porchetta e usma la tipicità nel bicchiere. Egli non mi pare sia poi così critico nei confronti di questi succedanei di feste e festival più paludati e meno gastro-orientati, tuttavia sottolinea come i piccoli paesi d’Italia – come un’impuntura che tiene insieme il tessuto del paese – non possono essere (modo indicativo) lasciati “ai fasti della desolazione” delle stagioni meno turistiche, meno calde, meno (apparentemente) suggestive. E scrive che non si riesce a farne “una questione politica” (però mi vengono i brividi pensando a cosa potrebbe inventarsi in merito una certa politica); chiude poi la sua ‘cartolina’ rivelando che quest’ultima estate ha segnato tracce più profonde e che molti giovani hanno “capito che è il caso di tornare ai paesi o di tentare di non andare via”. Spero che questa sua conclusione sia esatta, ma in ogni caso la sua cartolina ha lasciato una traccia in me e io – nel mio minuscolo piccolo – ne scrivo, avendo in mente una bella porzione del patrimonio evocato, avendo ben presente quale risorsa esso sia – quasi sempre ancora incompresa – e quale capacità esso abbia di attrarre sguardi interessanti (e non solo interessati) per fare in modo che ogni villaggio, ogni frazione torni a essere un insediamento umano, in modo contemporaneo; e quale potenziale in termini di creazione di lavoro sarebbe “restaurare” tutto ciò che merita di esserlo.
Pensiamoci ora, anziché piangere su Palmira, altrimenti l’Isis siamo noi.