Riflessione dedicata ai nostri maschi "coraggiosi"
SIENA. Sì, ho ben capito che “femminicidio” vorrebbe dire che mi ammazzano in quanto persona di sesso femminile; sarà pure, ma a me sembra molto un paravento per le cattive coscienze che minano questo paese, dove, quando ci sarebbe da prendere una decisione chiara, invece inventano una parola e la fanno diventare la “parola- chiave”; poi non se ne sa più nulla.
A me basterebbe che ammazzandomi, o riempiendomi di botte, o infamandomi (e diffamandomi con mobbing) fossero giudicati e condannati semplicemente considerandomi una persona; perché se io (dio non voglia!) ammazzo un maschio – in quanto tale – è forse un “maschicidio”?
Ma, a parte le considerazioni di tipo linguistico, quello che vorrei segnalare è altro: la violenza di cui noi donne siamo vittime è qualcosa che viene da lontano, o meglio dal profondo più vile di un’incultura di cui è imbevuta la nostra società. Non riguarda solo la violenza fisica – le botte, gli stupri, il padrone (ma anche il marito o il compagno) che allunga le mani a suo piacimento, fino all’omicidio – ma prende le mosse da qualcosa che i maschi succhiano con il latte materno, oppure con il biberon; qualcosa di cui anche noi donne siamo sottilmente – ma non troppo oscuramente – corresponsabili, e al cui riguardo dobbiamo riflettere.
Anch’io, nel mio piccolo, rifletto.
Ho qualche ricordo – di quando ero giovane – a questo riguardo (ma ho sempre saputo cogliere il momento migliore per reagire) e ne ho tenuto conto crescendo i miei figli: o almeno sono convinta di averne tenuto conto e spero che sia davvero così. Spero di non aver mai lasciato passare il messaggio mucho macho e alla via così (al figlio maschio), ma nel dubbio – almeno a parole – gli ho sempre sottolineato che era più corretto che lui fosse il meno aggressivo possibile con i più mingherlini e riservasse il “muso duro” con quelli che erano in grado di reagire tirandogli un bel cazzotto sul suo bel naso greco. Spero che segua sempre questa regola, altrimenti mi vergognerei di lui, assai.
Ho anche qualche esperienza che risale ad anni più recenti. Non ricordo precisamente quanti anni fa, un giorno, ho incontrato in un locale pubblico un tale che conoscevo: naturalmente l’ho salutato e questo tale – invece di rispondere con più o meno calore al mio saluto, invece di fingere di non aver sentito, invece di andarsene senza ricambiare – prima si è accertato di avere un pubblico (seppure minimo, ma alla sua altezza) e poi ha sbraitato “a quelli come te io il saluto lo tolgo”. Sì, mi pare di ricordare che le parole fossero proprio queste, dette ad altissima voce, in modo che tutti sentissero e che io ne fossi umiliata; senza dare spiegazioni – ovviamente – in modo da lasciar supporre che io avessi commesso chissà che cosa e chissà a chi.
Più di recente, lo stesso tale si è esibito in una performance simile a quella di cui sopra, davanti a un pubblico più qualificato – perciò nuocendo anche di più, alla mia immagine e alla mia reputazione – tanto da far scattare, subito dopo, le scuse contrite dell’ospite di entrambi. È ovvio che se la società non fosse colpevolmente inerme di fronte a queste sopercherie, questi comportamenti tribali non avrebbero diritto di cittadinanza.
Quel tale era, ed è, convinto della propria impunità, è certo di potersi permettere queste performance non proprio eleganti (e per me assai dolorose) per una serie di fattori. Ma quello scatenante – ne sono certa – consiste nel mio essere donna, e in quanto tale aggredibile impunemente. Qualcosa, dentro di me, mi fa pensare che se io fossi un maschio grande e grosso, tutti quei fattori che lo fanno sentire così sicuro, impallidirebbero di fronte al rischio (ancestrale, ma immediato) di un cazzotto sul suo (brutto) naso! (E se la paurosità fosse femmina: femmina sarà lui).