Gli stranieri investono o comprano?
SIENA. Le voci che girano, in queste belle campagne, parlano di tycoon o di società – provenienti da est – che stanno battendo il territorio alla ricerca dei “mejo fichi del bigoncio2 – le aziende più dotate di carisma, i marchi più belli, le perle del made in Italy -. Le voci precisano che le proposte sono generose e sicure, che l’occhio è allenato a scegliere l’eccellenza; viene allora da pensare che questo frangente elettorale – con la vasta gamma di incertezze e di porcherie che ti si affacciano alla mente – è il momento più favorevole per una seduzione a buon mercato.
Non voglio dire che chi sta arrivando, magari da oriente, a riproporre ciò che ci è già giunto da occidente il secolo scorso, proporrà prezzi di svendita; ciò che voglio dire è che questa una volta il nostro paese si mostra (come non mai)al suo peggio, con la pancia molle e la voglia di arrendersi, costretto da corruzione, avidità, miopia e insipienza dilaganti.
Se quelli che hanno responsabilità nei posti chiave – politica+istituzioni – provassero a guardare più in là, non potrebbero non accorgersi che proporre al mondo il made in Italy – in quanto prodotti di gamma alta e altissima, legati all’ingegno italiano, alla terra e alla cultura dei nostri distretti – è ovviamente impegnativo, ma è forse anche ben diverso che lasciare a imprenditori di paesi concorrenti il compito di farlo. E forse, se ci mettiamo su questa strada, tutto il paese perde sé stesso.
Però fare impresa in Italia oramai è divenuto estremamente oneroso; c’è uno slalom gigante da percorrere fra le mille tagliole e il milione di balzelli inventati per spremere un’altissima percentuale del margine operativo di chi produce, ben prima che esso possa definirsi ‘netto’.
Ce n’è da scoraggiare chi è ben dotato di liquidità, figurarsi i molti (la maggioranza) che si dibattono tra fisco, banca e tortuosità burocratiche. La tentazione sarà fatale: davanti a un’offerta che azzera ogni pensiero anche gli imprenditori giovani, gli artigiani che vivono di un nome che poggia sul lavoro di generazioni – agricoltura in primis – saranno tentati, anzi spinti, a cedere (magari dopo aver garantito anche ai figli o ai nipoti una vita al netto del sistema Italia, ormai fittamente disseminato di mine – antimpresa).
Certo, in questi giorni non c’è spazio che per il toto voti; anche se nessuno si illude che ci siano idee e progetti per futuri diversi, pensieri dedicati al paese e ai cittadini. L’ansia elettorale della politica consiste soprattutto in un’attesa di capire quanti posti si renderanno liberi; non certo solo per la rendita in sé – che senza essere profeti si può immaginare sarà drasticamente ridotta – ma per continuare nel ‘gioco’ di sfruttamento e arricchimento intorno alla cosa pubblica.
“Vendere”, oggi troppo spesso è l’alternativa a ”morire” o comunque fare una fatica immane per sopravvivere; ma vendere significa anche affidare il nostro futuro a chi acquista. Il futuro del paese e dei suoi cittadini. Abbiamo ancora la possibilità di competere, da vincenti, con “le uova d’oro” del nostro paese (dei nostri distretti culturali e produttivi), fatte dalla bottiglia di Brunello e i fondi oro: da Giotto e l’olio extravergine; solo esempi da moltiplicare per “enne” volte, quante sono le opportunità e i prodotti nel mosaico nostrano. “Vendere”- in generale – vuol dire scegliere tra valorizzare il “prodotto Italia” o prepararci tutti a subire le scelte di altri. Se la politica, il sistema creditizio e le istituzioni non sono ancora e di nuovo capaci di vedere e di capire il paese – al di là dell’attuale momento e delle solite urgenze – lo consegneranno alle logiche frettolose della convenienza dei singoli. Ancora una volta la conta sarà quella dei soldoni e ai nipoti toccherà imparare le lingue – stavolta non per girare il mondo – ma solo per fare i camerieri.