Dietro una metafora l'inconsistenza di politici (e tecnici) incapaci
di Silvana Biasutti
SIENA. Esce il Venerdì di Repubblica – giornale che ha sempre avuto un “occhio (negativo) di riguardo” per Siena – che titola: Siena, la caduta. Il tutto ben illustrato da una foto di Palio (ovviamente una caduta) che non ho neanche ben osservato, più interessata semmai al trattamento dei contenuti, peraltro immaginabili.
Lo scandalone del Montepaschi – la cui portata invece è ancora inimmaginabile per dimensioni, tipologia e impudenza – è uno degli eventi che hanno punteggiato l’ultimo anno che ci è toccato di vivere. Un anno in cui ci hanno propinato di tutto: ipocrisie, imbrogli, vanità, arroganza, supponenza, violenze, espropri, narcisismi, turbe sessuali, furti, esodi forzati, disastri, menzogne. Il tutto un po’ così, elencato alla rinfusa. Ma, con regolarità da orologio svizzero, nei tanti momenti peggiori è uscita sempre la parola “crescita”.
L’ho sentita dopo l’instaurazione dell’Imu, dopo (ma anche durante) l’aumento dell’Iva, mentre la Fornero con occhio lacrimante contava e ricontava gli esodandi (protestando la propria innocenza, nonché le origini operaie dei propri genitori); la “crescita” ha fatto capolino almeno un paio di volte alla settimana, qualche volta accompagnata da quell’altra espressione da impuniti – sviluppo sostenibile -; è persino uscita di bocca a chi ci aveva appena strizzato il portafogli, salvo promettere (subito dopo) di promuoverla diminuendoci le tasse, in occasione della propria candidatura alle elezioni politiche.
La crescita è – da sempre – quella striscia della capigliatura che sta tra il cuoio capelluto e la parte tinta del capello; una zona che rivela le nostre debolezze e lascia intravedere come saremmo se non ci camuffassimo. Per tutto questo anno appena trascorso, ogni volta che ho sentito pronunciare l’ineffabile paroletta mi son venute in mente visioni da parrucchiere di periferia, con immagini grottesche di capelli bianchicci che denunciano la vera condizione di qualcuno che per apparire come forse non è nemmeno mai stato, si colora senza riserve né pudori, nascondendo la propria vera consistenza. E non alludo a chi si tinge i capelli.
No, il pensiero che c’è dietro la metafora è proprio quello suggerito da questa classe di politici (e di “tecnici”) privi di consistenza, incapaci di devozione verso lo Stato, privi di coraggio e di generosità, che hanno parlato di crescita senza trovare mai qualcuno che li rimandasse opportunamente nell’angolo, muniti di orecchi d’asino per incapacità tecniche (quanti sarebbero gli esodati?, per favore ditecelo); hanno pronunciato crescita, pensando esclusivamente alla propria (o comunque dando sempre questa precisa impressione); hanno tassato, e tagliato pensioni, dicendo crescita un’altra volta: fingendo (a meno che fossero/siano dei minus habens) di non capire che se mi dai meno soldi (e soprattutto se mi togli quelli che ho) primo mi spaventi, poi mi deprimi e terzo infine mi metti nelle condizioni oggettive di avercene di meno da spendere (o da risparmiare).
Cresce invece l’impazienza nei confronti di chi continua a sollecitare attenzione per tutto quello che può turbare i mercati finanziari ma allo stesso tempo non vuole vedere la dispersione di risorse naturali, di intelligenza creativa, di beni culturali, di unicità di cui è disseminato questo paese.
La crescita è, purtroppo, ancora quella degli egoismi al potere.