di Silvana Biasutti
MONTALCINO. Leggo spesso, sulla stampa quotidiana più colta, articoli sulla rimozione della “morte”, del concetto di morte (forse anche di malattia), da parte della nostra società. È vero: viviamo in un tempo in cui tutti i segnali che fanno parte della nostra vita quotidiana paiono pretendere da ciascuno di noi una scalata quotidiana a una specie di “benessere” psicofisico, senza cedimenti.
-Chi si ferma è perduto – diceva quel tale … Soprattutto una partita IVA, aggiungo io sarcasticamente, leggendo e scrutando i nuovi cosiddetti stili e condizioni di lavoro. Aggiungo anche che (però) la rimozione di tutto quello che costituisce problema per la nostra efficienza va sempre più intrecciandosi con l’insolvere di numerosi accidenti e incidenti, in un mondo che assomiglia sempre di meno a quello che molti di noi hanno, o avevano, in mente.
Ma non è di questo che volevo scrivere. Perché ieri ho letto della dipartita di Alberto Folonari (tutto un pie’ di pagina sul Corriere della Sera); la notizia era data con l’articolo, ma i parenti e coloro che avevano avuto contezza dell’infausto evento, avevano pubblicato un necrologio sul quotidiano.
Lascio a un altro momento l’eventuale discussione sull’ineludibile scelta della testata, dico solo che essa sta ai necrologi come il palcoscenico della Scala sta al melodramma. È lì che si scrive ciò che si sceglie (o si deve), per commemorare qualcuno che ha lasciato questo problematico mondo: qualsiasi siano le ragioni per cui si ritenga opportuno farlo; lì e non altrove.
Oggi, sempre il Corsera, pubblica un numero ben più altro di necrologi per Alberto Folonari: chi conosce la storia e le storie del vino italiano capisce bene perché; ma anche chi sa cos’è il FAI, o chi conosce le grandi famiglie che contano, nel nostro paese.
Ma non è del FAI, né delle grandi famiglie italiane che voglio dire, con queste righe. Mi limito – vivendo in una terra che dà all’universo mondo splendidi vini – a essere colpita da un necrologio che viene da una terra lontana, altrettanto splendida ed enologicamente generosa, la Sicilia. Perché tra le commemorazioni e ricordi di parenti e amici e anche del mondo del business (ovviamente) alla dipartita di Alberto Folonari, spicca – sul Corrierone – il lapidario memento de “i Tasca d’Almerita”, altra grande famiglia dell’Italia del vino, ma non solo: sicuramente anche di un’Italia dei buoni sentimenti, della memoria di chi ha fatto e dato, e sicuramente una famiglia di persone consapevoli del valore che ha la memoria ben coltivata, proprio come si coltiva una vigna. Perché la memoria è preziosa, ed è con essa che si costruisce il futuro.
Per questo – e non solo in questa circostanza, ma in altre, analoghe e significative – resto perplessa notando l’assenza di un mondo che della memoria deve avere un religioso rispetto: il mondo del vino, che senza storia – della terra e degli uomini che l’hanno saputa coltivare in tutti i sensi – si immiserisce.
Lo stesso stupore mi prese quando se ne andò Gianni Brunelli, un personaggio che ha occupato l’immaginario di molti e che molto ha fatto per Siena e per Montalcino (alle sue Logge è passato mezzo mondo che conta e forse qualcosa di più). Identico sentimento quando, due anni fa, ci lasciò Franco Biondi Santi, icona in cui si identifica il Brunello di Montalcino.
Un silenzio fragoroso, che oltre dell’incapacità di provare sentimenti, dice molto del bisogno di una robusta iniezione di cultura (e di uso di mondo), nel mondo che più la potrebbe rappresentare, in modo ineguagliabile.