SIENA. Conosciamo la nostra Costituzione? Forse non bene come dovremmo. Continua il confronto di riflessioni sui vari articoli che la compongono. Scrivono per noi Vanni Griccioli e Mario Ascheri.
Il quinto articolo è uno dei punti stabili e di riferimento immodificabile della Costituzione Italiana e questa sua immutabilità si trasforma in fonte di ispirazione al cambiamento innovativo di tutto l’ordinamento che regola e vitalizza la nostra Repubblica.
Infatti lo Stato comunità, nella sua unicità ed indivisibilità, riconosce e genera autonomie decentrate atte a servire l’interesse pubblico e strumentali al servizio della collettività. Infine, adegua le proprie leggi alle esigenze delle autonomie e del decentramento.
Dobbiamo comprendere che questi due concetti sono complementari in quanto le prime (autonomie) garantiscono il decentramento politico amministrativo e quest’ultimo è efficace solo se possiede autonomia.
E’ indubbio asserire che il cardine essenziale per l’attuazione di questo articolo è ubicato nella ricerca di una corretta interazione tra Stato ed il suo pluralismo territoriale (regione, provincia, città).
Chi non ha notato le discussioni e le disposizioni contrastanti che si sono susseguite in questo periodo pandemico tra il Governo rappresentante lo Stato e i presidenti delle Regioni, o ascoltato le esternazioni contrariate di alcuni Sindaci che si sono schierati all’interno di questo conflitto amministrativo decisionale.
La Costituzione è chiara e inequivocabile: l’autonomia ed il decentramento amministrativo devono servire per raggiungere più direttamente e con maggior efficacia le esigenze del cittadino avvicinando i servizi erogati e percependo con maggior puntualità le problematiche legate ad ogni singolo territorio.
Per cui la contrapposizione sterile tra il Governo che rappresenta lo Stato (che in ultima istanza è l’ente Pubblico sovrano) e i vari rappresentanti delle autonomie decentrate (Presidenti delle regioni e Sindaci) riguardo alle disposizioni da assumere a livello territoriale particolare in questo periodo emergenziale, ci mostra il “lato oscuro” del principio di autonomia decisionale.
“L’autonomia non è solo un principio; è anche un processo che tocca” sovente “ricostruire”, asseriva Staiano in una prospettiva poco auspicabile di contrasto tra sistema dei partiti e apparato statale. Evidentemente è arrivato il momento giusto e non più rimandabile per provvedere a tale ricostruzione.
Vanni Griccioli
Qualche premessa informativa
Il dettato di questo articolo non ha subito mutamenti dal 1948 ad oggi. E si capisce: solo la parte della Costituzione in cui trova applicazione il principio generale in esso espresso, su Regioni, Province, Città metropolitane (assenti nel testo del ’48) e i Comuni, è stata ritoccata e anche in modo sostanzioso dal centro-sinistra per smussare l’ascesa della Lega. Se ne è poi parlato ai tempi del referendum sulla riforma ‘Renzi’, per intenderci, e in questi mesi di epidemia: Stato, Regioni e Comuni sono bene assortiti nelle competenze sanitarie?
Ma leggiamo il testo: “La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento”.
Il dettato è solenne, soprattutto laddove “riconosce” le “autonomie locali”, come dire: le autonomie c’erano già prima che noi Repubblica le ricordassimo nella Costituzione. Sono realtà territoriali pre-esistenti, con una loro vita che la nostra cultura e volontà politica vuole tutelare parlandone già ad apertura della Costituzione. non prevederle sarebbe ignorare qualcosa di ‘naturale’ quali le aggregazioni avessero un valore di per sé! Ed infatti nel ’48 vennero in questo modo interpretate, come gangli vitali della nuova democrazia.
Riconoscere le autonomie era ribaltare la politica verticistica del fascismo, che aveva governato imponendo nomine unilaterali e senza elezioni nelle Province e nei Comuni (le Regioni non esistevano, come si sa). Perciò anche il decentramento, che programmaticamente indicava una strutturazione dello Stato non più accentrato e guidato da Roma, ma con una articolazione che consentisse di avere rapporti più semplici e diretti con la Pubblica Amministrazione anche localmente. In modo da poter evitare di dover sempre ricorrere ai Ministeri della Capitale anche da aree molto lontane da Roma.
Autonomie e decentramento dovevano essere l’una e l’altra faccia della realtà nuova: una realtà alternativa a quella fascista, a partire dalle modalità di copertura delle posizioni ufficiali.
Rimettere alla scelta dei cittadini a suffragio universale chi dovesse governarli dagli enti locali o dai gangli dello Stato doveva segnare una svolta profonda. E lo fu, sia chiaro.
Ma che le tre grandi componenti politiche del tempo, democristiana, azionista-liberale, socialista-comunista, si trovassero d’accordo sulla nuova cornice istituzionale rispose ad una riflessione profonda unita anche a convenienza contingente.
Regioni e Comuni dovevano essere garanzie per chi fosse rimasto in minoranza dopo le elezioni decisive per la formazione delle nuove Camere (il Senato prima non era elettivo) dello stesso anno dell’entrata in vigore della Costituzione.
Si sapeva bene che le forze politiche non erano presenti in modo armonico nelle varie aree del Paese: il referendum istituzionale con la maggioranza monarchica al sud aveva detto molto e l’organizzazione politica e sindacale successiva al 25 aprile già aveva indicato regioni ben qualificate politicamente. Un governo di sinistra, pensavano le forze di centro e di destra, avrebbe dovuto colloquiare e non eventualmente opprimere gli enti locali guidati dai loro partiti.
Le decisive elezioni del ’48 fecero tirare un gran sospiro di sollievo. L’Italia non doveva più correre il rischio di divenire un satellite di Mosca! L’aiuto americano sarebbe stato essenziale alla Ricostruzione, che avvenne rapidamente e in gran parte bene con un apparato burocratico che era in gran parte continuazione di quello fascista. Le epurazioni furono minime, anche per volontà di Togliatti. Eppure egli subì un attentato e si sapeva che nel Paese c’erano gruppi di rivoltosi pronti allo scontro in caso di crisi gravi delle maggioranze di centro degasperiane. Le quali furono consigliate dalla situazione a rinviare: se quei facinorosi fossero anche al governo delle Regioni che succederebbe del Paese? Prudenza, quindi. Decentramento e Regioni divennero però in questo modo uno dei motivi di discordia ulteriore. Il governo non applicava la Costituzione (come per il referendum e altri punti fondamentali ancora ora dimenticati…), che per le Regioni fu finalmente rispettata nel 1970/72. Libri e dibattiti a iosa auspicavano un cambio netto dello Stato: con le Regioni (Franco Bassanini fu un teorico) lo Stato si svuoterà di molte attribuzioni e burocrazia. Molto sarà a portata di mano e in modo semplice.
La realtà in questi 50 anni
Le Regioni, a parte quanto è emerso per la pandemia che è discorso a sé, non sembra abbiano risposto in linea generale alle attese, grandi, che avevano creato. Hanno moltiplicato politici, spese e burocrazia non sempre migliore di quella statale. Complicato, anziché semplificare. Anche quelle a statuto speciale, che allora avevano un senso preciso per motivi contingenti ma che, essendo in Italia, sono tuttora vegete grosso modo e incrollabili – e con riforma Renzi lo sarebbero state anche di più… Nessun partito osa parlare di cosa succederà dopo il 31 marzo, figuratevi se pensano a riformare le Regioni! Eppure un discorso serio dovrebbe cominciare da loro: non eliminarle, ma farne momenti di cooperazione delle Province, quelle sì centrali nella nostra storia e radicate e con buone tradizioni finché la riforma Del Rio, sciagurata, non le ha ridotte a fantasmi…
E con le Regioni, a statuto speciale o meno, tante altre cose andrebbero ripensate a partire dal Presidente della Repubblica, dall’ordinamento dei partiti, dal governo dei giudici… ma per ora può bastare. Serve cultura delle istituzioni – e non la pratica di avvocato privatista per impostare grandi lavori come questi -, e serve volontà politica, che i partiti così come sono oggi hanno difficoltà a formare in modo serio.
Ma questo è un altro discorso che faremo quando arriveremo all’art. 49, Covid permettendo, ora possiamo-dobbiamo affrontare un altro problema di stretta attualità, ahimè.
La gestione del tesoro/debito pubblico
Qualche raro saggio comincia a chiedersi come si affronterà il debito pubblico che si sta ingigantendo, ma visto che ci sono elezioni prossime venture nessuno vuol perdere voti e siamo alle solite. Far conicidere gli election days sarebbe questione banale e molto importante, ma tant’è, il genio italico (attuale beninteso) non ci arriva… Ma almeno si amministrasse meglio la massa di soldi che si tenta di fare arrivare alle categorie più disagiate o colpite dalla pandemia! C’entra col discorso fatto sopra. Non è questione di Conte, ma di tutti: chi ha auspicato che tanti fondi venissero invece gestiti a livello di autonomie?
Faccio un’osservazione banale data dagli scandali scoperti nell’utilizzo del reddito di cittadinanza che, si sa, sono tanti soldi, come gli aiuti alle categorie indifferenziati con criteri analoghi che si sia al Sud o no, in grande città o no ecc. ecc… Il difetto spesso è nel manico dell’art 5! Non rispettato.
Chi se non il livello comunale può sapere quanto è disagiata una famiglia e quant’è necessario un reddito integrativo o di base? No, invece valanghe di domande e di burocrazia.
Qui bastava pensare che un modello era costituto dagli ECA (Ente comunale dfi assistenza, cui si può cambiar nome se ritenuto disdicevole), dove si apriva un fascicolo vedendo negli occhi e ascoltando le persone che richiedevano un ausilio pubblico. Non ci si fida? Ma allora perché ci sono assistenti sociali o addetti alle imposte, operatori della Finanza ecc.? Il livello locale permette di conoscere a tutto tondo, se si vuole e personalizzare l’aiuto. Basta la possibilità di controlli anche incrociati, ovviamente: che so, dei consiglieri comunali? E’ tanto difficile pensarlo, anziché tener tutto stretto a Roma? Contro l’articolo 5 della Costituzione?
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