SIENA. Conosciamo la nostra Costituzione? Forse non bene come dovremmo. Continua il confronto settimanale di riflessioni sui vari articoli che la compongono.
Questa volta tocca a Roberto Barzanti, politico, e a Francesco Burroni, attore.
Roberto Barzanti
Per me la via migliore per comprendere il significato di un articolo della nostra Costituzione è sempre stata la riflessione sul suo formarsi. Ripercorrendo le varie proposte che hanno condotto alla redazione finale è possibile cogliere gli elementi teorici alla base di frasi distillate con somma cura, cercando di contemperare i diversi apporti. In questi brevi appunti mi limiterò a offrire qualche considerazione, senza la pretesa di entrare nel merito di problemi giuridici e, tanto meno, di tener conto della giurisprudenza che al riguardo si è accumulata. Nell’articolo sono sintetizzati tre principi essenziali del complesso edificio della nostra Repubblica: il principio personalista, il concetto del pluralismo sociale, la nozione di solidarietà. La proposta iniziale fu avanzata da Giorgio La Pira e avrebbe dovuto essere l’articolo 1. Vi era scritto che il fine della Costituzione «è la tutela dei diritti originari e imprescrittibili della persona umana e delle comunità naturali nelle quali essa organicamente e progressivamente si integra e si perfeziona». Balzavano subito in evidenza da un lato il richiamo ai diritti naturali e dall’altro la visione dell’uomo, cioè dell’umanità: le donne oggi non accetterebbero un maschile astratto, derivato da un’alta tradizione. L’impronta era marcatamente cattolica, perché i diritti scaturivano dalla creatura umana in quanto partecipe dell’ordine naturale. San Tommaso ne era un suggeritore non secondario, ma anche il battagliero giusnaturalismo rilanciato e modulato in termini laici. Ciò che più importa, detto in soldoni, è che i diritti non sono concepiti come una concessione dello Stato e nemmeno son vigenti perché riferiti al “cittadino”, ma sono propri della persona in quanto tale. Lo Stato avrà il compito di promuoverli, garantirli e farli diventare concreti «nel rispetto della natura spirituale, libera, sociale, dell’uomo». Son parole dell’attacco della proposta, che non mi metto a seguire nelle varie modifiche subite soprattutto ad opera di Lelio Basso. Sottolineo che è scomparsa la «natura» quale sorgente dei «diritti originari e imprescrittibili»: dizione che sarebbe sopravvissuta nella qualificazione di «inviolabili», mentre l’esplicito rinvio alla «natura» scomparve del tutto. Anche il termine «persona» sparì. E qui il discorso dovrebbe snodarsi lungo e puntiglioso. Basterà dire che si volle evitare una collegamento troppo puntuale con la dottrina del personalismo, che aveva preso piede a partire dagli anni Trenta e aveva avuto nel cattolico Emmanuel Mounier il suo profeta più accreditato e seguito. Il personalismo si opponeva sia all’individualismo liberal- borghese sia al collettivismo di conio marxista. L’uomo non è un singolo che faccia storia a sé, «nessun uomo è un isola» per rammentare il titolo di un famoso libro di Thomas Merton, tratto dal grande John Donne: « No man is an island». Si forma e vive in mezzo ad una comunità fatta di altri uomini e di altre donne , nei rapporti che costruisce, nelle attività che condivide, nella solidarietà che alimenta. Si può ben dire che, pur scomparsa la parola, il senso profondo di un personalismo inteso nel suo largo significato è sostanzialmente accolto e non a caso valorizzato quale dimensione necessaria del pluralismo. Le «formazioni sociali» sono quei corpi intermedi tra istituzioni e persone che danno luogo alla “società civile” e contribuiscono a plasmare la «personalità» di ognuno. Termine, direi, di compromesso, perché esprime più che altro i caratteri psicologi e le attitudini dei singoli, eppur serba eco della persona . «La vita sociale dell’uomo – sottolineò Alessandro Galante Garrone in un prezioso volumetto di educazione civica, “Questa nostra Repubblica” – non si esaurisce nei suoi rapporti con lo Stato. E in un regime di vera libertà ogni spontaneo raggruppamento sociale deve potersi liberamente espandere nel pieno rispetto della libertà altrui». Non era una pura ripresa del personalismo, con le sue ricadute organicistiche. E poteva accontentare tutti coloro che immaginavano una democrazia nuova, pluralista nel confronto delle idee e ispirata ad una sollecita solidarietà. Spesso si fa dell’ironia contro coloro che fanno appello a questo concetto e li si accusa di moralismo. Invece la solidarietà è fondante per tenere insieme un popolo che non si frantumi in risse odiose e in protervi egoismi. Non a caso si aggiunse che alla tutela dei diritti avrebbe dovuto accompagnarsi l’«adempimento dei doveri»: «base – è stato sentenziato dalla Corte – della convivenza sociale normativamente prefigurata dal Costituente». È inutile esercizio chiosare il calibrato testo dell’articolo 2 e chiedersi con amarezza quanto di esso si rifletta nella dura condizione che soffriamo, non solo in Italia. I principi non si incarnano mai pienamente, ma la quotidiana lotta per farli vivere nelle leggi, nei costumi, nelle esperienze, nei fatti è il solo modo onesto di non degradarli a vacue enunciazioni.
Francesco Burroni
L’arti’olo 2 de la ‘ostituzione
ri’onosce a ogni cittadino il diritto a la libera espressione
che sia bianco o nero, grosso o piccino,
che sia de la Mens Sana o del Costone
de la Roburre o dell’Alberino
e che ‘n Piazza ognuno abbia l’occasione
di vede’ ‘l Palio dal su’ colonnino.
Poi dice del diritto d’associassi con chi ci garba
e con chi ci va pe’ fa’ cose importanti o trastullassi
come Contrada o Pubbli’a Assistenza
e ci invita alla solidarietà
ché si sta meglio in compagnia che senza.