Il confronto è tra Massimo Guasconi, presidente CCIAA, e Giancarlo Brocci, patron de L'Eroica
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SIENA. Conosciamo la nostra Costituzione? Forse non bene come dovremmo ed è per questo che iniziamo da oggi un confronto settimanale di riflessioni sui vari articoli che la compongono.
Iniziano Massimo Guasconi, presidente CCIAA, e Giancarlo Brocci, patron de L’Eroica.
Massimo Guasconi
Una mia riflessione sul primo articolo della nostra Costituzione mi permette, come Presidente della Camera di Commercio di Arezzo e Siena di ricordare proprio un padre costituente del nostro territorio, Amintore Fanfani, che intervenne in Assemblea per proporre la formulazione fondata sul lavoro” in sostituzione di quella “dei lavoratori” più gradita al PCI di Togliatti.
Una proposta avanzata assieme ad altri costituenti, compreso Aldo Moro, che venne poi fatta propria dall’intera Assemblea. Una mediazione importante, che si è ripetuta molte altre volte tra forze politiche fortemente antagoniste ma che in momenti decisivi per la nostra repubblica, penso agli “anni di piombo”, seppero trovare , anche grazie alla comune lotta al regime fascista e all’avversione ad ogni tentazione autoritaria o di violenza liberticida, momenti di collaborazione e di condivisione delle responsabilità.
Collaborazione che, come ha sottolineato il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, sarebbe necessaria anche in un momento così difficile per la nostra comunità nazionale quale è quello che stiamo vivendo con l’emergenza Covid 19!
Tornando al dettato costituzionale, in quella formulazione, è chiaro come il riferimento al lavoro non abbia una accezione puramente “economicistica”: da un lato, come appunto richiamava Fanfani nel suo celebre intervento, questa esclude che la nostra Repubblica, a differenza del passato, possa fondarsi sul “privilegio, sulla nobiltà ereditaria, sulla fatica altrui” e sottolinea come invece si fondi sul diritto-dovere di contribuire, attraverso il lavoro alla crescita del nostro paese; da un altro punto di vista, la centralità del lavoro è la sintesi di un confronto, che si è sviluppato a partire dal diciannovesimo secolo, tra le varie culture politiche e che ha portato ad individuare tra i principi ed i valori fondanti di un paese democratico non solo i diritti e i doveri afferenti alla vita civile e politica ma anche a quella sociale.
Il ruolo fondamentale del lavoro è la grande novità delle nostra democrazia.
La sfida, sempre attuale è quella di assicurare a tutti i cittadini le condizioni per partecipare a questo processo di sviluppo poiché attraverso il lavoro si ha la crescita economica e culturale della persona e quindi della nostra stessa comunità.
Una sfida alla quale anche il sistema delle imprese è chiamato quotidianamente a dare il proprio determinante contributo.
Giancarlo Brocci
Il nostro primo articolo di una Costituzione bellissima si basa su due concetti nobili e largamente disattesi. Il lavoro, alla base della Repubblica Italiana, resta un concetto che latita, la cui garanzia è lungi da essere appannaggio di tutti. Differenze fra latitudini, fra sessi, fra età, modalità eccentriche di accesso a tante professioni, l’uso di una meritocrazia che pone base sul groviglio di furberie nazionali prima che sui valori effettivi in campo, fanno del diritto al lavoro un concetto ancora ben vago. Un altro problema per niente secondario è il decoro salariale del lavoro routinario, quello delle tot ore settimanali per undici mesi l’anno per una vita, ovviamente quando si è tra i fortunati estratti cui un impiego è toccato, paragonato agli infiniti rivoli per i quali oggi si arriva a professioni e guadagni abnormi, che rendono l’impegno costante un modo per relegarsi ad una vita da comprimari, in cui l’esercizio zen sta nel trovare tanti bei motivi valoriali, molto alternativi, per andare avanti e riuscire, talora, a sorriderci su.
Son diventati troppi, e spesso indecenti, i mestieri per cui si accede a cuccagne milionarie, si è finito per sdoganare, senza neanche più la licenza di critica, fortune dovute a qualche bingo nei settori mediatici, nello sport, in campi dove la possibilità di moltiplicare per l’intero mondo, in modo esponenziale, un’abilità, una trovata più o meno geniale, talora truffaldina, il modo per togliersi per sempre dalle secche del bisogno e lasciare i soliti Cipputi a domandarsi dove mettere l’ombrello. Poi, di certo, si è sempre più affermata una concezione della gestione della politica come spartizione di potere, il modo per creare una rete di professionisti molto autoreferenziati e sostenuti da una pletora di cercatori di briciole che cadono da ricca mensa. Tanti lavori, anche per questo vasto scibile di scappatoie all’impegno per la vita, son diventati poco appetibili perchè duri ed usuranti, perchè rischiosi, ma soprattutto perchè non in grado di garantire alcun biglietto d’accesso al cosmo Vip. Molte di queste attività sono coperte da mano d’opera di immigrazione, lavori da profughi, se non di guerra di economia. Tanti dei nostri son là in attesa che passi il treno buono, quello che porta rapido a destinazione paradiso; e magari sono in attesa con reddito, se non di cittadinanza di risulta, fin quando dureranno i risparmi di generazioni contadine.
Certo, si potrebbe essere caustici anche sul concetto, perfetto e illuminato, di una sovranità che appartiene al popolo. Il popolo è largamente quello di cui sopra, tanto più in un’Italia grande e bellissima che non è mai stata una Nazione ed il cui motto per molti, dopo secoli di dominazioni e di padroni variamente modesti, è stato “o Francia o Spagna purchè se magna”. E’ un consenso che si è molto giocato sui nostri provincialismi, su vizi e piaghe storiche, su clientelismi ed ingerenze che hanno sempre determinato un potere immarscescibile, pronto a interpretare ed incanalare ogni principio di cambiamento. In questo il popolo si è confermato sovrano: nell’assomigliare molto, fatti salvi i diversissimi stipendi, a chi lo ha sempre governato.