di Raffaella Zelia Ruscitto
Questo non è un editoriale. Non è neppure un articolo che mette insieme notizie, avvenimenti, fatti. Cosa voglia dire, adesso, per me, essere una giornalista, una narratrice dell’attuale, uno spirito ribelle continuamente in lotta con questo costante, incessante, dilaniante, declino dell’umanità, proprio non lo so. Neppure la parola “umanità”, adesso, mi pare abbia un senso. Un senso nobile, impegnativo, degno di un moto di orgoglio e di ammirato stupore come era un tempo per me.
Sto cercando di trovare, in questi mesti giorni di novembre 2023, una qualche certezza che non sia avvilente e frustrante… addirittura terrorizzante. Ma no. Non mi riesce. L’unica cosa che mi riesce di pensare è che fuori dalla porta di casa mia, da poche centinaia di metri e più lontano, estendendosi fino al mare e oltre, ci sono persone che muoiono, che piangono, che hanno paura di altre persone, che vengono torturate, che non hanno da mangiare, che sono sole perché hanno perso tutto, che non hanno più speranze a cui appigliarsi, perché private di ogni dignità e di ogni diritto. E poi ci sono persone che odiano e che inneggiano all’odio, che sono convinte di essere migliori di altre, che pensano che esercitare una qualche forma di potere sugli altri possa essere sufficiente per giustificare ogni possibile, orribile, azione di prevaricazione. Persone prive di qualunque empatia, che non sanno provare sentimenti, e che hanno messo a tacere la coscienza dentro un portafoglio griffato o tra le pagine sconclusionate e rumorose di un social totalmente finto o, ancora peggio, dietro una serie di convinzioni, ideologie, principi che gli darebbero diritti aggiuntivi, privilegi di qualche genere rispetto al resto del mondo.
Infine, ci sono quelli che hanno il vero potere: dai piccoli, meschini potenti, come i nostri governanti nazionali, a quelli poco più in alto in quella ormai “sputtanata”, inutile, ipocrita Europa; fin su, ai potenti veri, a quelli che stampano e muovono soldi e passano sulle nostre teste falcidiando allegramente, rendendoci schiavi, muti, ciechi, stolti, distratti, poveri e dipendenti.
Di fronte a queste amare riflessioni, il leone scappato dal circo, che circolava mesto per le vie di Ladispoli qualche giorno fa, mi è apparso come un topolino di campagna circondato da innumerevoli serpenti a sonagli… ed il vederlo tornare nel suo piccolo recinto mi ha fatto sospirare di sollievo, perché l’ho visto in salvo da uomini potenzialmente pericolosi, infinitamente più di lui.
E cos’altro avrei dovuto pensare quando non si fa altro che ascoltare il resoconto degli ultimi femminicidi, dei parricidi, degli omicidi di giovani usciti per una serata di svago con gli amici ed essere rimasti sull’asfalto, colpiti a morte, da coetanei armati… e di donne stuprate in gruppo, da bestie feroci travestite da ragazzi? E che dovrei pensare quando si moltiplicano bulletti poco più che bambini che sono capaci di tanta ferocia da spingere un loro coetaneo al suicidio? Che dire quando la disperazione e l’umiliazione si affrontano nel tempo delle bambole e dei trenini? Quale sentimento dovrei provare? Quale, se non quell’opprimente peso di dolore che spegne ogni fiducia nel prossimo?
E sempre con questo stesso stato d’animo ho seguito la vicenda della piccola Indi Gregory, morta in Inghilterra dopo che i giudici inglesi hanno preso la decisione di staccare le macchine che la tenevano in vita. Per lei, il presidente del Consiglio Meloni ha indetto un Consiglio dei Ministri straordinario. Per darle la cittadinanza italiana e portarla al Bambino Gesù, per tenerla ancora attaccata alle macchine e chissà, magari offrirle una manciata di giorni, settimane ancora…
Ma… nessun Consiglio dei Ministri straordinario per i bimbi che stanno morendo anche adesso a Gaza, sotto le bombe o dentro le incubatrici che non funzionano più negli ospedali della Striscia. Nessuna cittadinanza italiana per i figli dei palestinesi. Neppure il coraggio di prendere una posizione netta da parte del nostro Governo, nelle stanze dell’Onu, a favore di un cessate il fuoco su Gaza. Una vergogna che nessun contratto milionario ad Eni da parte di Israele per cercare gas naturale a largo di Gaza potrà lavare e che spero finisca in qualche libro di storia tra qualche anno, come il segno della pochezza dei rappresentanti del nostro Paese.
Sui social si susseguono immagini di cortei a favore della Palestina libera e del cessate il fuoco, in tutte le parti del mondo: dall’America al Sudafrica, dalla Francia all’Asia. Anche in Italia. In corteo volti e occhi di persone di diversa etnia, di diversa fede (anche ebrei), di diversa estrazione sociale, senza fuorvianti differenze tra destra e sinistra (altra forma di distrazione di massa tutta italiana). A cosa servono? A nulla. Non muovono nulla, non toccano nessuno. L’informazione ufficiale non ne parla. I telegiornali e i talk show non ne parlano. Ma fanno ancora peggio. Distorcono la realtà, incitano alla diffidenza nei confronti dell’Islam, come se questa fosse una guerra di religione, alimentano la paura, fanno passare Israele come vittima e non come carnefice, di fatto fingendo di non conoscere la storia di quella fascia di terra e facendola partire dal 7 ottobre (e fermandola pure a quel momento come se, nel frattempo, non fossero morte oltre diecimila persone), lavorano sulle coscienze mescolando il vero e il falso, il giusto e lo sbagliato, e usano le parole a loro piacimento con una malafede che è smarcatamente complice dell’orrore.
Nei giorni scorsi ho ascoltato colleghi (ma magari no!) che auspicavano l’attacco di terra di Israele (poi arrivato); qualcuno è andato addirittura in Cisgiordania mettendoci tutto l’impegno possibile per equiparare la condizione dei palestinesi oppressi con quella dei coloni arrivati da mezzo mondo ad occupare; e ancora ho visto chi, in una assurda litania, continuava a chiedere ai partecipanti alle manifestazioni “sei con Israele o con Hamas?”, togliendo di fatto ai palestinesi anche il diritto di essere citati come possibile opzione da appoggiare…
L’unico sentimento che riesco a provare distintamente, tra i tanti che mi attraversano è quello che mi fa dire “Non nel mio nome!”
“Non nel mio nome” questa strategia di diffusione dell’odio e della diffidenza verso l’altro che non può portare ad altro che alla guerra, dentro e fuori gli Stati
“Non nel mio nome” questo appoggio incondizionato alla violenza su civili indifesi e questa genuflessione al potere
“Non nel mio nome” questa politica della contrapposizione e della distrazione di massa
“Non nel mio nome” questa doppia morale che sceglie chi piangere e chi ignorare tra i morti ammazzati in questa fredda epoca di guerra ad ogni latitudine.
Non voglio, oggi, domani, o mai, guardare mia figlia negli occhi e dirle che sono stata complice, che ho taciuto, che non ho voluto vedere. Non voglio dirle che non ho pianto davanti al dolore dei miei fratelli e delle mie sorelle, senza chiedere loro il passaporto o il nome del Dio che invocano nel momento della disperazione. Non voglio dirle che non ho fatto nulla per mettermi dalla parte giusta per tentare di offrirle un mondo meno ingiusto e indegno di questo.
Mi vestirò di nero, invece, per ricordarmi che l’umanità è morta più e più volte in questi giorni e che continua a morire calpestata dal cinismo, dal razzismo, da una ipocrisia dilagante o peggio dall’indifferenza.
L’umanità muore ogni volta che di fronte all’ingiustizia ci giriamo dall’altra parte, che non ci lasciamo toccare dalla sofferenza dell’altro, che cerchiamo un nostro vantaggio a discapito di chi ci sta accanto, che non sappiamo soffrire per chi è privato di tutto, che non vediamo le differenze come una ricchezza e non come un pericolo, che non sappiamo insegnare ai nostri figli che non ci sono differenze tra gli uomini che possano giustificare il razzismo, che l’unico razzismo ammissibile è verso ogni forma di violenza, di ogni prepotenza.
Mi vestirò di nero come una madre che piange accanto ad altre madri, sui corpi di figli che non cresceranno, stringendo le mani fredde di compagni costretti ad imbracciare fucili, a lanciare bombe, a guardare negli occhi altri uomini nel momento del loro ultimo respiro. Ed ogni volta muoiono un po’ anche loro.
E tutto questo dolore per cosa? Per far ingrassare i fabbricanti di armi, per nutrire l’odio degli esaltati convinti di essere la “razza migliore”, per dare seguito agli interessi di qualche superpotenza arrogante e boriosa, per far parte (una parte sacrificabile) di un disegno di controllo che da decenni ci rende tutti schiavi? Forse per dare una chance a poveri di spirito e meschini di ogni etnia di sentirsi qualcuno, sbranando protetti dal branco?
Mi vestirò di nero, aspettando di svegliarmi da questo incubo che pare non avere ancora raggiunto il suo culmine.