Possiamo scegliere tra quelli che non hanno detto no, gli autocandidati e i futuri outsider
di Raffaella Zelia Ruscitto
SIENA. Quella poltrona della Fondazione Mps, tanto era ambita in passato, oggi appare come Cenerentola prima dell’arrivo della buona fata del restyling… I “no, grazie” alla carica di presidente sono arrivati a raffica: dopo Prodi e Bini Smaghi ecco arrivare puntuale quello di Enzo Cheli, costituzionalista, con all’attivo numerosi incarichi istituzionali e una sfilza di pubblicazioni che ci passa un’oretta solo a leggerne i titoli. I nomi dei “no-man” sono davvero di alto profilo e mettono una certa soggezione. Mette soggezione, soprattutto, la risposta che hanno dato all’offerta di dirigere una Fondazione che ha ancora (comunque) il 34 per cento di una banca che, sebbene con gli acciacchi già più volte rilevati, è pur sempre un nome che conta nella finanza italiana! E poi: si vuole mettere lo stimolo di una sfida da “uomini duri” come può essere quella di rimettere in piedi un organismo praticamente in coma? Il nuovo presidente della Fondazione Mps rischia di passare alla storia come il “salvatore della Patria”. Oppure come il definitivo “demolitore” dopo il buonismo devastatorio e sfrontato del Gabriello Mancini. Insomma: il boccone resta ghiotto per tante ragioni ma, si vede, gli stomaci degli invitati sono tutti rigorosamente a dieta e preferiscono portate decisamente meno “elaborate”.
Ci siamo domandate, tra il serio e il faceto, anche chi abbia fatto questi “inviti”. Questo aspetto non è proprio secondario. Cosa, esattamente, è stato proposto a questi esimi luminari? Come? E da chi? Tutte domande che resteranno mestamente senza risposta e che non faranno luce sulla tragicommedia che si sta consumando sotto le dorate macerie di Palazzo Sansedoni.
Ieri è in parte calato il silenzio sulle nomine “pendenti”. Se non fosse per la proposta arrivata da Enrico Tucci e Laura Vigni. Parte dell’opposizione ha smesso di borbottare sul generico ed ha calato il suo “tris”. I nomi proposti sono Emilio Giannelli, Piero Pisanu, Norberto Sestigiani (quest’ultimo sostenuto anche dal MoVimento 5 Stelle). Nomi papabili per la Deputazione Amministratrice e pure (o in alternativa, per uno di loro) per la presidenza della Fondazione. I personaggi sono noti, stimati e apprezzati per il loro impegno e per la conoscenza della banca in questione, quindi avrebbero tutti i crismi per essere presi in serissima considerazione dalla Deputazione Generale; anche perché alzano il livello di confronto su piani ben diversi da quelli fino a qui propinati. Solo una osservazione. I posti sono cinque: i nomi fatti sono tre. Probabilmente i due consiglieri Tucci e Vigni non si sono trovati su altri nomi da aggiungere così da presentare una rosa di candidati di più ampio respiro… Eppure, di nomi ne sono usciti in questi giorni. Sui giornali, sul web e pure a passeggio tra le lastre. Le proposte, soprattutto quelle arrivate dagli ambienti vicini al potere, sono state molteplici; talmente tante da far pensare ad una cortina fumogena messa su ad arte per tenere nascoste le vere manovre sottobanco. Persino Gasparri (PdL) tira le orecchie al partito, alla Banca d’Italia, al Ministero dell’economia.
Addirittura abbiamo assistito ad una autocandidatura: quella dell’avvocato Falaschi che, oltre ad avanzare il proprio nome si è permesso sommessamente di fare altri nomi: quello di Mazzoni della Stella e, pare, quello di Barzanti. Due ex sindaci a confronto. Sempre all’insegna del “nuovo che avanza”, naturalmente…
L’opposizione, in questo caso, avrebbe potuto benissimo spingersi oltre, essere più generosa nei confronti dei 14 membri della Dg e suggerire l’intero pacchetto di integerrimi da poter mettere a capo dell’ente senese più prestigioso. L’opposizione, per esempio, avrebbe potuto presentarsi compatta, almeno questa volta, sottoponendo alla città addirittura una lista di “probi” talmente ampia da far impallidire quella maggioranza che si incarta, ancora una volta, sull’occupazione di poltrone e prebende. Come a far vedere che non c’è bisogno di espatriare per trovare competenza, onestà e abnegazione: basta restare tra le mura di Siena e si trova una congrua presenza di “alti profili” da avere, effettivamente, l’imbarazzo della libera scelta. Ammesso che sia contemplata l’opzione “libera scelta”. E la candidatura, nata in rete dell’avvocato De Mossi? Non è piaciuta? Perchè? E perchè questa maggioranza (Pd) non trova la quadra, questa volta? Perchè in passato sono bastate le competenze di un Gabriello Mancini – ragioniere – per gestire un patrimonio stratosferico e adesso ci vuole un Bini Smaghi o un Cheli (ma neppure loro, a sentire Valentini) per un pacchetto patrimoniale ridotto all’osso?
Si torna a parlare di guerre intestine: i meglio informati riferiscono di dissapori tra i ceccuzziani e quello che resta del filone valentiniano. Il sindaco ci prova a smarcarsi ma lo fa male, incappando in gaffe mediatiche, su nomi troppo dentro e per nulla fuori da certe logiche riconducibili al vecchio sistema, magari per altre vie… e magari anche no. Nelle partite che ha giocato fino ad oggi (quelle che contano) ha lasciato emergere una debolezza che non trova spiegazioni plausibili. Almeno per un politico navigato quale dovrebbe essere. Dalla scelta della Giunta agli equilibri in Consiglio Comunale… dalle nomine della Dg fino a quella imminente del presidente e della DA… la sua incisività, sostenuta dai numeri e dai ruoli, è stata schiacciata da non ben precisate forze. Non ben precisate, salvo che nella riconducibilità all’ala affatto discontinua del partito.
Abbiamo assistito, con un crescente senso di impotenza, alla “trasfigurazione” valentiniana: da uomo forte (almeno a proclami), uscito vittorioso dalla primarie e dalle elezioni, ad amministratore rappresentativo di una classe politica incapace di essere all’altezza delle proprie parole, dei propri ideali. Il peso del sindaco Valentini è, ai numeri, indiscutibile. I suoi quattro deputati, se si mettono di traverso, non consentiranno alcuna nomina e non possono certo mostrarsi palesemente irrispettosi di quanto espresso dal primo cittadino. Sebbene possano benissimo tener conto di altre indicazioni o sollecitazioni non si farebbero certo carico di una ennesima rottura, magari a favore di questa o di quella corrente di partito.
Il presidente della Provincia Bezzini, di stampo ceccuzziano, con i due membri appena designati, potrà pure battere i piedi e mostrare ancora un po’ (ma non si sforzi troppo, il messaggio è fin troppo chiaro), la frattura interna ai democratici nostrani, ma dovrà rendersi conto, prima o poi, che i tempi non sono più idonei per temporeggiare. E neppure per tenere fede ad un sistema che è caduto talmente in basso da confondersi con la polvere che ricopre le lastre.
Aspettando il 27 agosto possiamo nutrire poche certezze, e tutte con l’amaro in bocca. La prima è che il nuovo presidente della Fondazione Mps uscirà dalle stesse logiche partitiche di un tempo, avrà forse qualche competenza in più del suo predecessore (tanto per discontinuare da qualche parte), ma non si sa bene quanto potrà e vorrà metterle in campo nel tentativo di risollevare le sorti dell’ente che sarà chiamato a presiedere.
La seconda è che tutta questa “muina” di fine agosto puzza di pilotato. Proprio come puzzava fin dall’inizio la vicenda di Antonveneta. Proprio come continua a puzzare: in barba agli scaricabarile clamorosi di Mussari, Botin, Caltagirone, Draghi e Tarantola e corte al seguito… Lo dimostrano le domande fatte dai magistrati all’ex direttore di Antonveneta. Riportiamo testualmente il frammento di un articolo de L’Espresso: “Ma Caltagirone viene tirato in ballo in domande rivolte a manager come l’ex direttore di Antonveneta, Giuseppe Menzi: «In occasione dell’acquisizione di Antonveneta le risulta che Caltagirone abbia ricevuto somme di denaro per aver mediato e agevolato l’accordo tra Mussari e gli spagnoli del Santander a valori gonfiati?» , chiede il pm. E ancora: «Ha mai confidato tali informazioni a un certo finanziere-immobiliarista spagnolo residente in Italia?». Menzi dichiara di non sapere assolutamente nulla né del coinvolgimento di Caltagirone, né del misterioso immobiliarista spagnolo cui non si fanno altri riferimenti negli atti dell’inchiesta consultati da l’Espresso”. Stabilita la connessione tra vertici bancari (scelti dalla politica) e noti esponenti politici locali e nazionali, resta da capire le ragioni che sono dietro l’operazione di acquisizione che ha sdraiato una banca solida fino a quel momento. Una verità giuridica e una politica a cui forse non arriveremo mai.
La terza è che, nonostante tutto quello che ci accade intorno, nonostante la puzza e la conseguente nausea, siamo ancora in piedi.
E scusate se è poco!
Ci siamo domandate, tra il serio e il faceto, anche chi abbia fatto questi “inviti”. Questo aspetto non è proprio secondario. Cosa, esattamente, è stato proposto a questi esimi luminari? Come? E da chi? Tutte domande che resteranno mestamente senza risposta e che non faranno luce sulla tragicommedia che si sta consumando sotto le dorate macerie di Palazzo Sansedoni.
Ieri è in parte calato il silenzio sulle nomine “pendenti”. Se non fosse per la proposta arrivata da Enrico Tucci e Laura Vigni. Parte dell’opposizione ha smesso di borbottare sul generico ed ha calato il suo “tris”. I nomi proposti sono Emilio Giannelli, Piero Pisanu, Norberto Sestigiani (quest’ultimo sostenuto anche dal MoVimento 5 Stelle). Nomi papabili per la Deputazione Amministratrice e pure (o in alternativa, per uno di loro) per la presidenza della Fondazione. I personaggi sono noti, stimati e apprezzati per il loro impegno e per la conoscenza della banca in questione, quindi avrebbero tutti i crismi per essere presi in serissima considerazione dalla Deputazione Generale; anche perché alzano il livello di confronto su piani ben diversi da quelli fino a qui propinati. Solo una osservazione. I posti sono cinque: i nomi fatti sono tre. Probabilmente i due consiglieri Tucci e Vigni non si sono trovati su altri nomi da aggiungere così da presentare una rosa di candidati di più ampio respiro… Eppure, di nomi ne sono usciti in questi giorni. Sui giornali, sul web e pure a passeggio tra le lastre. Le proposte, soprattutto quelle arrivate dagli ambienti vicini al potere, sono state molteplici; talmente tante da far pensare ad una cortina fumogena messa su ad arte per tenere nascoste le vere manovre sottobanco. Persino Gasparri (PdL) tira le orecchie al partito, alla Banca d’Italia, al Ministero dell’economia.
Addirittura abbiamo assistito ad una autocandidatura: quella dell’avvocato Falaschi che, oltre ad avanzare il proprio nome si è permesso sommessamente di fare altri nomi: quello di Mazzoni della Stella e, pare, quello di Barzanti. Due ex sindaci a confronto. Sempre all’insegna del “nuovo che avanza”, naturalmente…
L’opposizione, in questo caso, avrebbe potuto benissimo spingersi oltre, essere più generosa nei confronti dei 14 membri della Dg e suggerire l’intero pacchetto di integerrimi da poter mettere a capo dell’ente senese più prestigioso. L’opposizione, per esempio, avrebbe potuto presentarsi compatta, almeno questa volta, sottoponendo alla città addirittura una lista di “probi” talmente ampia da far impallidire quella maggioranza che si incarta, ancora una volta, sull’occupazione di poltrone e prebende. Come a far vedere che non c’è bisogno di espatriare per trovare competenza, onestà e abnegazione: basta restare tra le mura di Siena e si trova una congrua presenza di “alti profili” da avere, effettivamente, l’imbarazzo della libera scelta. Ammesso che sia contemplata l’opzione “libera scelta”. E la candidatura, nata in rete dell’avvocato De Mossi? Non è piaciuta? Perchè? E perchè questa maggioranza (Pd) non trova la quadra, questa volta? Perchè in passato sono bastate le competenze di un Gabriello Mancini – ragioniere – per gestire un patrimonio stratosferico e adesso ci vuole un Bini Smaghi o un Cheli (ma neppure loro, a sentire Valentini) per un pacchetto patrimoniale ridotto all’osso?
Si torna a parlare di guerre intestine: i meglio informati riferiscono di dissapori tra i ceccuzziani e quello che resta del filone valentiniano. Il sindaco ci prova a smarcarsi ma lo fa male, incappando in gaffe mediatiche, su nomi troppo dentro e per nulla fuori da certe logiche riconducibili al vecchio sistema, magari per altre vie… e magari anche no. Nelle partite che ha giocato fino ad oggi (quelle che contano) ha lasciato emergere una debolezza che non trova spiegazioni plausibili. Almeno per un politico navigato quale dovrebbe essere. Dalla scelta della Giunta agli equilibri in Consiglio Comunale… dalle nomine della Dg fino a quella imminente del presidente e della DA… la sua incisività, sostenuta dai numeri e dai ruoli, è stata schiacciata da non ben precisate forze. Non ben precisate, salvo che nella riconducibilità all’ala affatto discontinua del partito.
Abbiamo assistito, con un crescente senso di impotenza, alla “trasfigurazione” valentiniana: da uomo forte (almeno a proclami), uscito vittorioso dalla primarie e dalle elezioni, ad amministratore rappresentativo di una classe politica incapace di essere all’altezza delle proprie parole, dei propri ideali. Il peso del sindaco Valentini è, ai numeri, indiscutibile. I suoi quattro deputati, se si mettono di traverso, non consentiranno alcuna nomina e non possono certo mostrarsi palesemente irrispettosi di quanto espresso dal primo cittadino. Sebbene possano benissimo tener conto di altre indicazioni o sollecitazioni non si farebbero certo carico di una ennesima rottura, magari a favore di questa o di quella corrente di partito.
Il presidente della Provincia Bezzini, di stampo ceccuzziano, con i due membri appena designati, potrà pure battere i piedi e mostrare ancora un po’ (ma non si sforzi troppo, il messaggio è fin troppo chiaro), la frattura interna ai democratici nostrani, ma dovrà rendersi conto, prima o poi, che i tempi non sono più idonei per temporeggiare. E neppure per tenere fede ad un sistema che è caduto talmente in basso da confondersi con la polvere che ricopre le lastre.
Aspettando il 27 agosto possiamo nutrire poche certezze, e tutte con l’amaro in bocca. La prima è che il nuovo presidente della Fondazione Mps uscirà dalle stesse logiche partitiche di un tempo, avrà forse qualche competenza in più del suo predecessore (tanto per discontinuare da qualche parte), ma non si sa bene quanto potrà e vorrà metterle in campo nel tentativo di risollevare le sorti dell’ente che sarà chiamato a presiedere.
La seconda è che tutta questa “muina” di fine agosto puzza di pilotato. Proprio come puzzava fin dall’inizio la vicenda di Antonveneta. Proprio come continua a puzzare: in barba agli scaricabarile clamorosi di Mussari, Botin, Caltagirone, Draghi e Tarantola e corte al seguito… Lo dimostrano le domande fatte dai magistrati all’ex direttore di Antonveneta. Riportiamo testualmente il frammento di un articolo de L’Espresso: “Ma Caltagirone viene tirato in ballo in domande rivolte a manager come l’ex direttore di Antonveneta, Giuseppe Menzi: «In occasione dell’acquisizione di Antonveneta le risulta che Caltagirone abbia ricevuto somme di denaro per aver mediato e agevolato l’accordo tra Mussari e gli spagnoli del Santander a valori gonfiati?» , chiede il pm. E ancora: «Ha mai confidato tali informazioni a un certo finanziere-immobiliarista spagnolo residente in Italia?». Menzi dichiara di non sapere assolutamente nulla né del coinvolgimento di Caltagirone, né del misterioso immobiliarista spagnolo cui non si fanno altri riferimenti negli atti dell’inchiesta consultati da l’Espresso”. Stabilita la connessione tra vertici bancari (scelti dalla politica) e noti esponenti politici locali e nazionali, resta da capire le ragioni che sono dietro l’operazione di acquisizione che ha sdraiato una banca solida fino a quel momento. Una verità giuridica e una politica a cui forse non arriveremo mai.
La terza è che, nonostante tutto quello che ci accade intorno, nonostante la puzza e la conseguente nausea, siamo ancora in piedi.
E scusate se è poco!