Il piano operativo va ripensato, spiegando il metodo da usare
SIENA. Da Pierluigi Piccini riceviamo e pubblichiamo.
“Amministrare una città è bellissimo, ma difficile. Ho avuto l’onore di guidare Siena per molti tra gli anni più belli e vivaci della città. Ricordo nitidamente quale fosse la cosa più ardua: non era aggiustare una strada, attrarre investimenti, organizzare un grande evento pubblico. Sono tutte cose difficili ma che, singolarmente, un Sindaco riesce a fare.
La cosa più difficile era inserire ogni attività, ogni intervento di manutenzione, ogni grande evento, ogni intervento un tassello di un grande disegno, una visione unitaria di città. Ed è questa a mancare oggi a Siena. Lo dico con grande sofferenza, ma anche con la certezza che la nostra comunità merita ed è in grado di ottenere molto di più.
Quel pasticciaccio brutto del Piano Operativo messo in piedi dall’amministrazione Valentini sembra lo specchio di una totale assenza di visione di città. Va ripensato, dichiarando da subito il metodo che si vuole adottare.
Pensare al progetto urbanistico di una grande e complessa città come Siena significa fare mente locale su quello che può essere oggi il principale campo di riflessione e di azione per la disciplina urbanistica, mettendo da parte i corposi aspetti burocratici e procedurali, per non dire rituali, ai quali si sta progressivamente riducendo la materia della programmazione urbana a causa dell’evoluzione/involuzione normativa della Regione Toscana.
Da molti decenni ormai, si è esaurita la fase di massiccio inurbamento parallelamente alla quale i piani avevano progettato la crescita della città (di intere sue parti) e con essa la struttura delle attrezzature per assicurare un benessere generalizzato. Non si tratta più di espansione, ma di aggiunte di dimensioni modeste e di recupero di aree ed infrastrutture dismesse o sottoutilizzate, con un nuovo sguardo verso la campagna urbanizzata (urbanizzazione diffusa) e non.
Da ciò deriva il ricorso ad una politica di renovatio urbis, da affidarsi a interventi puntuali e limitati che si propongono di modificare, dandole un nuovo senso e ruolo, una parte di città o di un luogo, modificando, a volte, il modo di funzionare dell’intera compagine urbana.
La politica di renovatio urbis ha però un problema di legittimità, c’è da chiedersi: perché quel progetto e non un altro, perché con quel programma e non con un altro, perché affidato a quell’attore e non ad un altro, perché in quel luogo e non in un altro?
Per superare queste apparenti contraddizioni non basta che i progetti specifici siano in relazione tra di loro e con la città nel suo insieme, ma devono essere inseriti in una visione complessiva. Una “VISION” non è un piano, è un tentativo di chiarire la linea dell’orizzonte, il nostro punto di fugga, di chiarire in modo non retorico dove vogliamo andare. Una “vision” è qualcosa di molto meno dettagliato, di molto più sfumato, di un piano e di un progetto, ma allo stesso tempo è qualcosa di molto più complicato.
A questa coerenza generale di prospettiva dovranno rispondere i programmi e i progetti, non la semplice collezione di istanze di soggetti che si attivano individualmente spesso in modo contraddittorio. Dunque si deve immaginare la direzione, l’obiettivo verso il quale tendere, rispetto al quale sperimentare gli scenari (cosa succederebbe se…) attraverso i quali poterlo raggiungere e verificarne l’efficacia delle ipotesi di progetto, mettendole alla prova, falsificandone le opzioni e i dispositivi.
La costruzione di una visione in una società democratica non è un affare personale, la scelta di un singolo, ma neppure può essere il risultato di un sondaggio. È un’operazione che tiene conto di quello che emerge dalle assemblee di partecipazione – idee, desideri, domande – ma che li rielabora e li riporta al quadro generale, prendendo una distanza critica dalla retorica che li accompagna”.