di Pierluigi Piccini
SIENA. Incontrarsi per parlare del “vivere associato”, nella città delle Contrade, è un po’ come fare un corso di alfabetizzazione a Manzoni. Siamo seri. Se il sindaco, se la parte politica che lo sostiene, devono accreditarsi verso un mondo che fa della solidarietà e del senso civico la propria cifra, invitando esponenti distanti anni luce dalla propria sensibilità, forse ci sono metodi più utili, forme di propaganda politica meno banali per ottenere l’obiettivo.
Quindi, la notizia di un ciclo di incontri sul tema della etica e partecipazione indetto dal Comune non può non far riflettere sull’attività dello stesso Comune: una amministrazione che in questi due anni si è caratterizzata per l’opacità nell’applicazione del diritto dei cittadini all’accesso agli atti; che ha utilizzato costantemente e fuori misura l’articolo 110 nella definizione degli incarichi dirigenziali, disattendendo la carta costituzionale, sottoponendo gli stessi dirigenti ad una pressione politica di parte, con interventi personali che hanno ignorato il parere dello stesso nucleo di valutazione; con il Consiglio comunale svuotato delle sue funzioni e ridotto alla semplice sopravvivenza. Domanda: come può l’eticità e la partecipazione prosperare senza la democrazia?
È vero, ci sono dei problemi nel mondo delle Contrade, nell’associazionismo che esprime valori in controtendenza nella società dei consumi e dell’odio, perché il mondo cambia e richiede continui adattamenti e, su questo piano, una riflessione profonda sarebbe stata auspicabile.
Si poteva affrontare un tema dirimente con serietà, senza fermarsi alla sua enunciazione e, dunque, a un evento per “promuovere la partecipazione civica e la cultura”, vago enunciato al quale si aggiungono altrettante vaghe riflessioni “su ambiente, intelligenza artificiale, ruolo della donna e della Chiesa, dei rapporti tra generazioni” (ragionare su tutto, per non ragionare di nulla).
Si rimane su un piano “leggero”, invece di affrontare i problemi e le contraddizioni del nostro tempo, in una città che fa i conti con l’emigrazione di giovani laureati, la crisi delle attività commerciali (ne è stata chiusa una su cinque), l’assenza di produzione culturale, con extracomunitari che vivono nei parcheggi pubblici, di una totale assenza di dibattito critico sull’over tourism, sulla crescita sostenibile, sull’occupazione economica del centro storico con la contestuale espulsione dei cittadini e degli studenti. I temi sociali, come si vede, non mancherebbero. Tanto più che l’assenza di analisi che ha portato all’improvvisazione delle navette avrebbe dovuto far scattare un campanello di allarme, una riflessione profonda, anziché formale.
Ma, del resto, comprendiamo quanto sia difficile occuparsi dei problemi di una collettività con lo spirito di chi si ritrova per prendere il tè delle cinque avendo la priorità di quale pasticcino abbinarci, in un clima “salottiero”. Diverso sarebbe se la città nel suo insieme fosse sollecitata, forte dei suoi valori, a contribuire alla definizione di un nuovo umanesimo. E visto che stiamo parlando con degli educatori una ulteriore domanda va posta: chi educa gli educatori (Fichte)?