Chi rischia sarebbe solo il gruppo di potere che ha portato banca e città ai minimi termini
di Red
SIENA. “Diciamo che quando si compra una società quotata non si fa due diligence, si fa un’offerta sul mercato. Sull’acquisizione di Antonveneta francamente non saprei dire se l’avrei comprata con la due diligence o senza”. Così Alessandro Profumo, presidente MPS, lo scorso 10 maggio 2012, rispondendo a una domanda sull’acquisizione di Antonveneta del 2008 (che avvenne senza due diligence) al centro dell’inchiesta della Procura di Siena.
Gli passiamo il dubbio, non è gentile censurare le operazioni svolte da chi se ne è appena andato via. Però il grande manager che guarda al futuro sa perfettamente cosa vuol dire fare spezzatino con la svendita del patrimonio della banca. Grazie alla maxisvalutazione dell’ultimo bilancio della fallimentare era Mussari, tutto quello che ricaverà dalla vendita di Biverbanca e dei 200 sportelli di Antonveneta risulterà contabilmente un buon affare, ma non è vero e lo sa lui per primo. Eppure praticare una strada che non ridimensioni il gruppo né la sua identità esiste: ma potrebbe costare il controllo dell’istituto a chi ne detiene le leve.
La Spagna ha nazionalizzato da poco il suo quarto gruppo bancario, Banxia. Scoprendo che il ritardo nell’agire costerà, fra l’altro, 23 miliardi di euro ai contribuenti spagnoli. Del caso Dexia si era già parlato parlato, e l’intervento statale di Francia, Belgio e Lussemburgo è stato enorme per buco di bilancio e titoli tossici e durerà non si sa quanti anni.
Perché non procedere dunque alla seminazionalizzazione di MPS? Lo strumento esiste, non costa nulla (se i bilanci di Rocca Salimbeni non contengono qualche scherzo, naturalmente) e immediatamente risolverebbe i problemi di patrimonializzazione sollevati dall’Eba senza sconvolgimenti. Si tratta di anticipare la trasformazione dei 1,9 miliardi di Tremonti bond in capitale MPS di proprietà dello Stato, che – ai valori attuali di borsa – ne farebbe il primo azionista della banca. Sommandoli alle misure già prese i 3,2 miliardi pretesi dal braccio finanziario della Ue sarebbero ampiamente superati, la liquidità per intervenire in soccorso di imprese e famiglie assicurata, il recupero di credibilità nel sistema interbancario totale. Sembra l’uovo di Colombo. Tanto non vi sono utili in previsione, nei prossimi quindici anni, che possano lasciare immaginare in alcun modo la restituzione dei bond al Tesoro e, comunque, il finanziamento scadrà per legge il prossimo anno, quindi si tratta solo di anticipare una misura irrevocabile.
A chi potrebbe non piacere tutto ciò? Se si fosse presa una decisione in tal senso la primavera del 2011 (quando prima si negava l’aumento di capitale, poi si diceva che la Fondazione non doveva scendere sotto il 51%, giusto per smania di conservare il potere a tutti i costi, e che costi!), si sarebbe consegnata la banca al governo Berlusconi; la “presa” sulla banca rossa, che tutti riconoscono in mano a D’Alema & C., perduta per sempre.
Adesso, invece, c’è il governo tecnico con cui si potrebbe dialogare, senza consegnare l’istituto all’avversario politico. Il governo Monti, ad esempio, potrebbe chiedere un solo posto in CdA da affidare a un senese autenticamente fuori dai giochi di potere locali e dotato di sufficiente preparazione per questo compito di rappresentare governo e città controllando, senza alterare, la governance del tandem Profumo-Viola. Per il Tesoro, la rendita di 160 milioni dai Tremonti bond è tramontata dentro il passivo presentato nell’ultimo bilancio… Ed si potrebbe evitare l’emissione dei pericolosi Co.Co.Bond (che il mercato ha già fiutato come solenne fregatura), senza alchimie contabili, senza rinunciare agli ultimi asset positivi rimasti, venduti i quali si rimarrebbe esclusivamente poveri, depredati e derelitti.