SIENA. La prima volta in cui ho sentito ventilare di una fusione ero molto giovane, lavoravo in un’agenzia di comunicazione internazionale, su marchi di grande prestigio la cui funzione era quella di raccontare il lavoro e le tradizioni che li avevano resi famosi e che erano il cuore del vantaggio competitivo di aziende e prodotti. Erano anni in cui le acrobazie della finanza assatanata di guadagni non aveva ancora iniziato a smontare la nostra storia e le nostre vite.
Sì, lo ammetto: eravamo in meno su questa terra e l’incubo di quei tempi era la guerra atomica e di certo le diaspore che ora ci sgomentano e ci pongono epocali domande non erano ancora all’orizzonte.
Ma torniamo a oggi. Leggo che il presidente della Fondazione Monte Paschi, professor Clarich – con una certa amarezza? – prefigura un altrove per la sede futura della mitica (e anche un po’ famigerata) banca senese. A prima vista, confesso, dentro di me gli ho dato ragione; non si può dimostrare così tanta incapacità, negli anni, di aver cura di un tale bene, senza suscitare negli spettatori una reazione di autentica rabbia.
Però in questi tempi in cui ogni prodotto italiano più tipico è ormai “made elsewhere” – sempre a causa di un’imprenditoria poco imprenditoriale e poco patriottica – consola un po’ che l’antica banca sia, probabilmente, fusa con (o in) un’altra banca italiana. Bene, cioè no, perché se una fusione è solo qualcosa di meramente – ancora una volta – e ciecamente finanziario; se vuole solo dire accorpare i numeri e fare tutte quelle operazioni che servono a soddisfare tutti gli spettatori (stakeholder, investitori, speculatori, politici, correntisti, per tacere dei lavoratori) e i protagonisti di una simile operazione, ancora una volta si butterà via un capitale non riconosciuto,(se non a parole, e non fino in fondo), dalla maggior parte degli uomini (e donne!) della politica. Non solo senese, ma italiana.
Perché purtroppo gli uomini e le donne della politica – con poche eccezioni – continuano a testimoniare con i fatti di non capire in che cosa consista il nostro patrimonio. Ma tornando alla Banca Monte dei Paschi di Siena: anche se sfiducia, scetticismo e disamore venano ormai i sentimenti di noi clienti nei confronti delle banche, (se penso alla delega totale che molti di noi per anni hanno lasciato nelle mani degli istituti bancari è come se evocassi un tempo remoto e fiabesco!) c’è da augurarsi che chi acquisirà la maggioranza in questa fusione sia capace di misurare il valore di un corporate così pregiato.
C’è da sperare che tra gli uomini che curano una siffatta operazione ci sia la consapevolezza (la competenza) del valore di un marchio. Un valore intangibile, ma traducibile in soldoni. Un valore incompreso dalla politica locale (e nazionale) che l’ha maltrattato fino a questo punto. Un valore forse incompreso perfino dalla città che ce lo aveva in pancia e lo misurava solo tramite “i soldoni” che ne poteva cavare.
Ma il valore della Banca Monte Paschi è legato alla città di Siena e alla sua storia (non alle sue storie!), è legato a un paesaggio di terra e di uomini immaginifici e immaginati dall’universo mondo. E’ legato ai sentimenti che la terra senese sa suscitare in chi la incontra dentro di sé.
Questa è la ragione per cui la banca deve mantenere la sua sede a Siena, lì dov’è e dove il mondo la immagina. Anche se, com’è ovvio, gli affari la porteranno intorno al mondo: ma il fittone della sua storia è lì. E non per le ragioni della politica, né per affarismi localistici, ma per dare continuità a un marchio che solo in quel contesto potrà continuare a brillare, anche se non sarà più nella disponibilità di chi non è stato capace di portarlo nel futuro.