di Silvana Biasutti
SIENA. Mi sono messa a scrivere questo pezzo perché non cessano, anzi, si moltiplicano articoli, dichiarazioni, ma anche post in rete che testimoniano nel migliore dei casi l’enormità e il peso schiacciante della situazione di Israele e Palestina.
Spesso però mi sembra che persone incolte si buttino a commentare come fosse una partita o una faida bestiale, in cui stare da una parte o dall’altra – senza capire, senza sapere, senza penare per chi la vive su di sé; ma anche senza rendersi conto che questa terribile storia ci coinvolge a molti livelli e tutti molto dolorosi. Ci coinvolge come europei, come italiani, come esseri umani.
All’inizio volevo soprattutto sottolineare che non si può – non è decente – parteggiare, perché ci sono uomini e donne e soprattutto bambini – (non mi importa quanti sono palestinesi o israeliani), che sono in mezzo all’orrore per interessi altrui. Ma chi sono io per scrivere qualcosa a questo proposito? E soprattutto, dove trovo le parole per dire quello che sento?
Poi ho letto un articolo di Metin Arditi (su “LE UN HEBDO n°467) e mi sono detta che poteva valere la pena di riportare la sua opinione e soprattutto il sentimento che egli esprime.
Metin Arditi è nato ad Ankara ed è ebreo sefardita, vive da sempre in Svizzera; è giornalista e scrittore, ma soprattutto è da anni impegnato per la pace e ha cofondato – assieme allo scrittore palestinese Elias Sanbar – “Les instruments de Paix”.
Ho letto la sua riflessione che porta anche l’idea di quale sia la sola possibile soluzione a questa terribile storia. Ho pensato che nel nostro paese potesse valere la pena di sentire e magari ascoltare questa voce di un ebreo non israeliano, che però ha vissuto la storia di Israele e quella della Shoa.
Riporto innanzi tutto il titolo: “Dans la peau de l’autre”, nella pelle dell’altro, che dà subito conto del suo pensiero. Poi riporto solo la parte finale del suo scritto, ma dico sin d’ora che posso tradurre a voce e inviare al cittadinoonline un audio, perché sto scrivendo su uno smartphone e faccio fatica a compitare le parole di un testo lungo (non sono a portata del mio computer).
Metin Arditi era in Israele quando si tennero le elezioni nel 2019 e nessuno considerava il problema palestinese. Constatava che anche la sinistra l’aveva cancellato dalla propria agenda. Lui era talmente toccato da questa assenza che ne aveva fatto un articolo per un grande quotidiano francese, intitolandolo “La Palestina non esiste”. L’articolo però gli fu rifiutato.
Arditi, si chiede come si sia potuto lasciar marcire nei decenni fino a questo momento il problema dell’occupazione dei territori che è aumentata tanto da cambiare la realtà sociale così profondamente, negli ultimi vent’anni, da renderla irrecuperabile, insanabile e nel contempo invivibile e disumana. (N.B. è un ebreo che parla). Per questo, afferma, è anche ulteriormente improponibile la configurazione dei “due Stati” contigui che le cancellerie occidentali continuano a mettere sul tavolo come se ci credessero.
I problemi da risolvere sono enormi, ma non è pensabile guardare al futuro senza affrontarli e senza prendere seriamente in considerazione la scelta di addivenire a un solo Stato in cui convivano due popoli.
Questo scrive Metin Arditi, che ricorda un suo incontro con Frederik De Klerk – il vecchio presidente del Sudafrica che aveva fatto la pace con Nelson Mandela e permesso la transizione verso una condizione di pacificazione dei due popoli del Sudafrica.
L’incontro era avvenuto nel 2014, per chiedere un consiglio a De Klerk per un progetto da lanciare nelle università israeliane. Il progetto consisteva nel chiedere agli studenti una breve fiction legata alla situazione di Israele. La condizione obbligatoria chiedeva agli studenti israeliani ebrei di scrivere mettendosi “nella pelle” dei compagni israeliani arabi, e viceversa.
Frederik De Klerk aveva commentato che era proprio quello che lui e Mandela avevano fatto per costruire il nuovo Stato sudafricano, perché “se non avessimo fatto così non avremmo concluso niente”.