Fermiamoci a riflettere sulla comunicazione
di Silvana Biasutti
SIENA. “Il gusto di Le Gruyère DOP è inimitabile perché in ogni forma ci sono 400 litri di latte fresco”; “Il modo migliore per fare casa: tanto amore e Segafredo Allora Moka”; “Da Eataly seminiamo la biodiversità”; “Legna e pellet per riscaldare la tua casa: 5 buone ragioni per una scelta intelligente”.
Sono quattro pagine intere (a sinistra) del Corriere della Sera di oggi. Precedute da altre pagine riservate alla moda (Valentino e Yamamay) da cui occhieggiano due belle giovani donne, debitamente sublimate, che costituiscono il messaggio – in tutte le sue parti – che arriva alle lettrici e ai lettori.
La moda non ha mai ‘fatto pubblicità’ nel vero senso della parola e secondo le regole (che qui non starò, inutilmente, a ribadire); i formaggi invece sì, il caffè pure (Lavazza docet, ma anche il Paulista d’antan).
Che AIEL (Associazione Energie dal Legno) si metta a fare pubblicità è un segno dei tempi; un segnale positivo (la pagina dà i dati sull’impatto ambientale, decisamente inferiore, del legno rispetto ai combustibili fossili, smentendo chi gabellava il legno e i pellet come inquinanti, chissà perché!); forse però è un segnale anche della crisi che insiste e preme sui nostri budget casalinghi. L’annuncio di Eataly invece è sulla scia degli altri che l’hanno preceduto: cavalca baldanzoso quest’idea che verde sia bello, che davvero pare crescere nell’immaginario (e nell’economia) degli italiani e non solo.
Da qualche tempo a questa parte i quotidiani nazionali sono tornati a ospitare pubblicità; e mi par di capire che la pubblicità sia tornata ad avere un suo ruolo. Se si torna a fare pubblicità e se questa la si ritrova sui quotidiani vuole dire che dai dati a cui guarda chi pianifica scientificamente risulta che sui quotidiani nazionali si trova il ‘cliente’ si diceva una volta (o il ‘consumatore’).
Nei miei ultimi anni di lavoro in azienda sono stata il committente di campagne pubblicitarie il cui obiettivo era quello di aumentare la voglia, il bisogno e l’inclinazione alla lettura – di organi d’informazione e di libri -: un pubblico privilegiato (più ricco, magari solo d’idee e di opinioni, più autonomo intellettualmente, perciò più complicato e più restio a seguire un invito pubblicitario).
Ora, come cittadina, ma anche da osservatrice (mi autodefinisco competente) interessata, osservo la comunicazione e la pubblicità in favore di ‘turismo’ e di ‘food &wine”, con alcune considerazioni che continuano a ballonzolarmi nel retro cranio. Le condivido con chi legge.
Ho lungamente sostenuto che i libri e i vini hanno profonde analogie che li segnano in termini di comunicazione; continuo a sostenerlo, perché come dietro a una copertina, anche se conosco altri libri dello stesso autore, sta una storia che non so quanto e se e come mi piacerà, così accade per un vino. E le analogie non si fermano qui: non le enumero, ma sono numerose, tra libri e vini. Purtroppo però, rispetto ai libri, i vini hanno dei punti di debolezza che richiederebbero preparazione, cultura, strumentazione professionale, che sono merce rara in quelli che ne parlano e che li comunicano; perché il mondo del vino ricorre spesso a sé stesso per curare la propria immagine, e troppo spesso questa è affidata a persone bravissime e molto qualificate finché si tratta di parlare di vino e di terra e di vigna, ma sono più adatte a dialogare con esportatori o con ristoratori, ma non sanno contestualizzare il vino nei consumi corretti di un pubblico di riferimento.
Eppure questo è un punto delicatissimo, perché i libri non hanno controindicazioni (se non che la carta pesa e costa), ne posso comperare e leggere a iosa. Il vino no, perché il suo consumo ha alcune precise controindicazioni e bisognerebbe tenerne conto nel marketing (non solo nella comunicazione!). Eppure il vino è una voce rappresentativa e molto interessante nel mix delle nostre esportazioni e parla molto del nostro paese; il suo punto debole può (deve!) diventare un argomento interessante e affascinante nella sua comunicazione.
Il turismo ha molte analogie con gli eccessi di consumo del vino: Venezia, Firenze, e tutte le città d’arte sono d’esempio, a questo proposito. Ma altri esempi ci appaiono quando andiamo in un “paradiso della natura” e lo troviamo straniato da un’invasione di nostri simili a cui non vorremmo assomigliare per niente; quando approdiamo a un museo o in uno scavo archeologico e ci ritroviamo in mezzo a gente che bercia e mangiucchia … potrei continuare, ma sono convinta che chi legge abbia capito perfettamente.
Dove vado a parare con queste puntualizzazioni? Semplice; siamo un paese in profonda crisi – forse molto più difficile e complessa di come viene raccontata – e ci consoliamo continuamente ripetendo e ascoltando e leggendo, dappertutto, delle nostre bellezze, dei vini, delle piazze, del mare, dell’arte, eccetera.
Però fino ad oggi nessuno (mi pare) ha colto la necessità di affinare le strategie, anzi gli obiettivi ancora prima delle strategie per raggiungerli. Perché quelli che noi ‘possediamo’ sono beni delicati e frangibili, soprattutto se li lasciamo nelle mani di chi non li sa maneggiare, perché non ne ha contezza e pensa solo ad aumentare i consumi (presenze sul territorio o bottiglie vendute che siano).
Per parlare di questi beni occorre averne chiari la fragilità e i punti di debolezza; per affrontare questi temi bisogna sempre usare uno strumento imprescindibile: il marketing della verità. Non credo che sia necessario spiegare perché ma è urgente imboccare questa strada .