… nell’impedire la propria svendita
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di Silvana Biasutti
SIENA. Credo fosse il 1990 (perché avevo ancora figli adolescenti) durante una vacanza a Cape Cod siamo arrivati a Provincetown e abbiamo potuto vedere la copia della senese Torre del Mangia che, ho letto successivamente, è stata eretta in quel luogo in memoria dell’arrivo dei Padri Pellegrini.
Grande stupore da parte nostra, anche perché nonostante fosse una copia piuttosto fedele, era costruita in granito; ma nonostante il grigiore, la forma ricordava la torre originale, in modo improprio e decisamente fuori luogo.
Mi soffermo su quest’ultimo punto, perché “ricordare in modo improprio” non significa solo tradire la memoria, ma vuol dire danneggiare un luogo, proponendone – a chi magari non l’ha mai visitato né forse mai lo vedrà – un’immagine (cioè un’idea) che lo riduce e lo appiattisce, togliendogli quell’unicum all’origine delle sue attrattive. Un po’ come accade con un oggetto di design o di alta moda, oppure con un vino o un cibo rinomati (le cui caratteristiche uniche li hanno resi esclusivi, desiderabili e in quanto tali più remunerate).
Perciò la mia reazione a un articolo apparso oggi sul Corriere della Sera – inserto Imprese Toscana – è un po’ spazientita. Ci si accorge solo ora che Toscana è un “brand”, cioè (in italiano) un marchio, su cui mezzo mondo specula guadagnando, perché la parola di per sé aggiunge valore a prodotti e contesti: nell’articolo si citano sia un luogo in Turchia – costruito e proposto come Vallata Toscana – sia a un progetto cinese per un costruendo ‘mall’, cioè un luogo per acquisti e tempo libero, che si chiamerà “Italian Tuscan Feelings” e che si appropria anche del marchio Italia (e scusate se è poco).
Il sentimento che coglie chi ha competenza relativamente alle dinamiche che regolano le leggi del mercato – ma ancor prima i sentimenti delle persone, che poi fanno il mercato – non può che oscillare tra l’allarme e lo sconforto.
Allarme per il ritardo con cui ci si accorge di un fenomeno (quello dell’italian sounding) di cui i professionisti della pubblicità e della comunicazione discutono e scrivono da almeno trent’anni. Allarme doppio perché la custodia di questi valori pare affidata agli uomini della politica e delle amministrazioni pubbliche: uomini che non conoscono la materia e che troppo spesso hanno messo temi e situazioni delicatissimi (vedi banche) nelle mani di incompetenti solo per solidarietà di partito.
Sconforto causato dalla consapevolezza che una reazione – sull’onda di questo articolo odierno e magari altri che seguiranno – sarà affidata a chi ne sa poco, perché non si è ancora capaci di separare i piani – qui partito e politica, là esperienza e conoscenza in un settore specifico –; perché in nessun caso quelli che, contraddistinti da una tessera, saranno candidati a difendere prodotti, marchi, saperi e, perché no, paesaggio, tengono in alcun conto la competenza, a cominciare dalla propria. Perciò non sono inclini a studiare e a costruirsela; non la cercano neppure, se non per sfoggio.
Perché prendersela dunque? Ma perché marchi, paesaggio, persino la nostra lingua e le sue parole, sono una fonte di ricchezza per tutti noi: prima di tutto perché sono lo scenario in cui siamo nati e vissuti, perché segni, suoni, forme e beninteso! contenuti, parlano alla nostra psiche, ci tengono compagnia, sono fonte di piacere in questi momenti avari di speranza. Per questo vanno conosciuti, riconosciuti, coltivati, difesi da appropriazioni indebite e da imitazioni arbitrarie.
Ma questo patrimonio è intangibile solo se è guardato superficialmente: in realtà tutto ciò (non solo il cosiddetto marchio “Toscana”) è un’enorme ricchezza che solo i privati sanno utilizzare senza consumarla, senza travisarla, senza farne folklore in pasto alla politica, ma porgendola come un valore che si va ad aggiungere al valore intrinseco (in cui assenza questo discorso è totalmente inutile).
La politica dovrebbe capire che cosa significa competenza e dovrebbe smetterla di tradurla come sinonimo di convenienza (per un partito o per un gruppo di potere).