di Silvana Biasutti
SIENA. Il paese in cui sono nata, questa Italia che diamo per malata, per moribonda, che sappiamo infiltrata fittamente dalle mafie, è un paese ricco. Ricco di soldi e povero di sensibilità. Scrivo sensibilità e non idee (come vorrei e come pensavo) perché mi sembra più corretto. In realtà manca la sensibilità, scarseggiano le idee (solo apparentemente) ed è totalmente assente il rispetto delle regole.
L’Italia è un paese il cui debito pubblico è un sesto della ricchezza accantonata dai privati. Sappiamo che si tratta di una piccola percentuale di privati, piccolissima, un piccolo numero di famiglie che detengono la più parte della ricchezza del paese, quella numerabile, quantificabile; lo sanno benissimo gli uomini delle banche e lo sanno anche i tedeschi che ogni tanto ce lo rinfacciano, con una certa acredine, secondo me ingiustificata.
Poi c’è un’altra notevole ricchezza, infinitamente superiore a quella già altissima costituita dal risparmio privato. È un patrimonio che alcuni si ostinano a definire virtuale, mentre altri – gli economisti, di solito – la chiamano il nostro “petrolio”, o comunque gli conferiscono naming che fanno subito capire come i soldi siano in cima ai valori che gli italiani (che contano) hanno in mente.
Quel patrimonio, che non è affatto virtuale e che si pensa corrisponda ai nostri beni culturali e artistici, è (invece) il nostro paesaggio. Il nostro paese declinato e solfeggiato in mille e mille versanti, coste, clivi, anfratti, margini, scorci, colline, montagne e boschi, …
Perché tutto ciò che noi (ma soprattutto gli altri) andiamo a vedere (spesso spinti dalla propaganda e dalla pubblicità degli sponsor) nei musei, nelle chiese, nei palazzi storici, trae ispirazione dalle forme in cui si esibisce, si declina, si illumina … l’Italia. Lo sapeva bene il Becattini – grande economista pratese che ha censito i distretti produttivi e culturali – lo sa bene un paesologo come Franco Arminio, che addirittura nel paesaggio ritrova la medicina per molte nostre malattie (e i neurologi lo confermano). L’ha saputo per tutta la sua vita Yves Bonnefoy, che dal paesaggio italiano ha ricevuto ispirazione e energia straordinarie per la sua poesia (leggere “L’Entroterra” per rendersene conto).
Provo a riscriverlo con altre parole. I grandi artisti, pittori architetti e scultori (e ora anche designer) non hanno dipinto scolpito e progettato le meraviglie che costellano l’Italia, solo perché erano dei geni. Sono stati anche ispirati dal paesaggio, dai colori, dai segnali, dalle forme che trovavano intorno a sé. Come sono stati suggestionati e ispirati scrittori e musicisti – non solo italiani – che percorrevano il nostro paese compiendo il “Grand Tour”, cioè entrando in contatto con il bello incarnato dall’Italia.
Ecco: tutto ciò è qualcosa di dimenticato, soprattutto dagli uomini della politica e dagli amministratori, soprattutto quelli che amministrano “piccole” realtà locali, che sono poi quelle piccole gemme che nell’insieme compongono un paese che dovrebbe essere governato con cautela e consapevolezza, in ogni suo particolare. Perché il diavolo – cari amministratori – è nei particolari, e lì si annida pure il terribile folklore, cioè il vissuto retorico e roboante delle nostre piccole e grandi bellezze: le radici degli alberi antichi che si confondono con le screziature dei colori della terra; i colori del tramonto appena intravisti tra i rami degli ulivi, le strade che sicuramente portano in luoghi di indefinibile bellezza, le pietre dorate di chiese e palazzi. Il paesaggio è fatto di cambiamenti graduali, di fusioni, di riparazioni fatte con maestria (e per questo invisibili), di migliorie apportate con senso della misura e gusto per i propri luoghi.
Altrimenti è retorica, pomposità, supposta per indurre al voto o al consenso. O ingenuità. O incapacità e impreparazione. Mentre infuria la banalità dei battibecchi tra insensibili incapaci di vedere la bellezza e di riproporla come fattore di benessere e come motore per il futuro (non sto contando i soldi!), bisogna avere cura del nostro paesaggio, in tutte le sue forme. Per evitare che venga ridotto a scenografia per un aperitivo. Per non lasciare che diventi solo un’altra forma di consumo.