Come si gestiva la banca senese quando era pubblica. E come si gestisce adesso
di Mauro Aurigi
SIENA. “Che colpa abbiamo noi? Purtroppo è arrivata, imprevedibile, la crisi economica, che non è nazionale, ma mondiale …”. E’ questo il mantra con cui la casta senese spera di scaricarsi di dosso le proprie responsabilità e giustificare le condizioni in cui il Monte (banca e fondazione) è stato ridotto. Crisi imprevedibile? Lo sa anche la più sprovveduta matricola di economia, e lo sa certamente chiunque abbia vissuto in questo Paese almeno negli ultimi 40 anni che le crisi economiche sono cicliche: ogni 10-20 anni quelle minori e ogni 20-30 quelle maggiori. E hanno tutte carattere globale, ossia mondiale, a cominciare dal quella di fine ‘800. Lo sanno tutti ma non lo sanno i tuttologhi della politica cittadina. E non lo sanno gli apprendisti stregoni, magari laureati, che quegli stessi tuttologhi hanno sciaguratamente paracadutato in quella che, fino a prima del loro avvento, era la banca più solida d’Europa. No, loro non lo sanno, non l’hanno mai saputo.
E meno che mai sanno che tutte le crisi del passato – ossia prima che con la privatizzazione la casta mettesse le sue grinfie sulla Banca – lungi dal rappresentare un rischio per il Monte, erano occasioni d’oro per crescere. Perché allora a Rocca Salimbeni non si facevano mai cogliere di sorpresa: crisi o non crisi la liquidità era sempre tanta, talvolta perfino eccessiva. Invece le banche private, le spa per intenderci, per colpa – allora come ora – dell’ottusa avidità degli azionisti erano – e sono – pesantemente illiquide, invischiate com’erano – e sono – nella finanza creativa (investimenti ad alto reddito e ad altissimo rischio) e nell’abbraccio incestuoso col comparto industriale. Così all’arrivo della crisi fallivano o svendevano il vendibile per cercare di restare a galla. Mentre invece le banche pubbliche, soprattutto quelle come il Monte, autonome dal governo romano ma non dalle sagge comunità locali che le avevano espresse, portavano a capitale la maggior parte degli utili (una parte minore andava al territorio per beneficenza e opere pubbliche), mentre rifuggivano da quegli investimenti rischiosi. Impattavano così nelle crisi con le casse piene e con la concorrenza delle banche private che si era fatta a pezzi da sola. Crescere allora, con tutto il mercato a disposizione e con cespiti di ogni genere in vendita a prezzi di liquidazione, non era solo una scelta, ma un obbligo.
COME CAMBIANO I TEMPI
E’ così che per secoli il Monte ha sempre comprato e mai venduto, crescendo anche senza volerlo, crisi dopo crisi. E più grave la crisi, più vigorosa la crescita. Semplice come l’uovo di Colombo. Non c’è bisogno di essere laureati in economia e neanche diplomati in ragioneria (e meno che mai in giurisprudenza) per capirlo: questa è l’unica via onesta per crescere. Sempre che non si abbiano alle costole quelle sanguisughe ottuse e miopi degli azionisti che ti succhiano subito ogni soldo appena guadagnato, impedendo il suo accantonamento a riserva per i tempi delle vacche magre. E tanto per capire cosa ha comportato quella saggia e cauta “filosofia” del Monte di allora, basti un dato: quando la banca era pubblica dava lavoro diretto (senza contare l’indotto) a circa 4000 Senesi. Sarebbe interessante sapere, ora che i dipendenti sono il doppio o il triplo di allora, quanti sono rimasti i Senesi.
Ma poi i tuttologhi e gli apprendisti stregoni di cui sopra – lauree e diplomi a sfare, anche in giurisprudenza – hanno privatizzato il Monte, ossia l’hanno trasformato in Spa. Così per la prima volta nella sua storia, il Monte, fiaccato dalle insensate strategie dei suoi “azionisti”, è arrivato alla crisi dei nostri giorni senza le sue leggendarie riserve, senza la esorbitante liquidità del buon tempo andato. Avrebbe potuto diventare la banca più potente d’Europa – non è un’esagerazione viste le dimensioni di questa crisi – e invece, finito nelle mani degli apprendisti stregoni (un giorno racconterò come un tempo si arrivava al vertice della Banca), è diventata, tra le grandi banche italiane, la più fragile. Per cui è costretto a vendere. E, come è logico che sia in simili frangenti, vende male.
Basti l’episodio più recente, l’ultimo di una lunga serie: la vendita del prestigioso palazzo di uffici in Via dei Normanni a Roma. Vendita astuta, dice la stampa locale: 35.000 mq in vista del Colosseo per 130 milioni di euro. Quindi non a 10.000 euro il mq che è la quotazione della zona, ma a 3600 euro il mq, neanche fosse un palazzone residenziale all’estrema periferia di Siena (quando si dice l’astuzia!). Ne conseguirà, aggiungono trionfanti i corifei, una plusvalenza di ben 34 milioni di euro (non 250 come avrebbe dovuto essere), plusvalenza ovviamente attribuita al “noto” fiuto per gli affari (vedi Antonventa) degli attuali amministratori. E neanche gli passa per la testa che quel guadagno, per poco che sia, è merito indiscutibile ed esclusivo della passate gestioni pubbliche della Banca. Tranquilli, comunque: quella modesta plusvalenza, invece di passarla a riserva in quanto attinente al capitale consolidato nella passata gestione pubblica, al solito sarà messa tra gli utili da distribuire ai famelici azionisti, che nessun merito hanno in proposito. Così si perpetua un indebolimento patrimoniale di cui la banca non aveva proprio bisogno.
Quando il Monte era pubblico (pensare che era disprezzato per questo), ossia quando apparteneva alla comunità senese, guadagnava e comprava di tutto, banche e beni immobili. E allora si pensava che guadagnare e comprare fosse azione virtuosa e segno di grande salute e soprattutto di patrimonialità. Oggi il Monte non guadagna più e svende e i cortigiani si congratulano per il “successo” (ben 0,3 punti del Tier 1, mica bruscolini).
Come cambiano i tempi!