Mauro Aurigi commenta le ultime esternazioni del vice-ministro

di Mauro Aurigi
SIENA. Prima di tutto due indispensabili premesse:
1. Sono profondamente convinto che nessuna indulgenza debba essere praticata nei confronti dell’evasione fiscale (lo Stato indulgente lo è stato anche troppo) e prima di tutto per motivi morali.
2. Non ho particolare simpatia per l’on.le Stefano Fassina (Pd), sottosegretario all’Economia del governo Letta, in quanto esponente e non dei migliori di quella casta buro-partitocratica che almeno da un trentennio sta succhiando il sangue di questo Paese.
A proposito dell’evasione fiscale il 25 c.m., il suddetto Fassina ha commesso un gravissimo errore, dettato da imperdonabile leggerezza: ha detto la verità anche se non tutta (nessuno è perfetto) sull’evasione fiscale. E dire la verità si paga sempre caro in un paese dove la menzogna, la disinformazione e l’ipocrisia (c’è persino chi asserisce che a Taranto si muore di cancro perché a fumare troppo non è l’Ilva ma i Tarantini) sono prassi indispensabili per restare a galla.
Dunque la mezza verità di Fassina è questa: l’evasione fiscale è spesso una questione di sopravvivenza in un Paese dove si è raggiunto il 54% di pressione fiscale. Monsieur de Lapalisse si sarebbe congratulato per tanta ovvietà, persino banale, ma il mondo ipocrita della politica e dell’informazione è insorto come un sol uomo contro il reprobo che così si sarebbe avvicinato alle posizioni di Berlusconi, massimo esperto nazionale in tale campo (almeno così sostiene la magistratura). Chissà cosa sarebbe successo se la verità Fassina l’avesse detta per intero.
Perché la verità per intero è quella che segue.
Una parte consistente del problema (50%?) – è vero quello che dice Fassina – riguarda quelle piccole e piccolissime imprese che riescono a sopravvivere solo grazie all’evasione fiscale: una volta che quest’ultima fosse debellata, quelle imprese saranno costrette a chiudere e i loro lavoratori (sottopagati “in nero”) saranno buttati sul lastrico. Ecco, un discreto risultato sia sul piano economico che sociale.
L’altra parte del problema (un altro 50%?) è invece rappresentato da imprese che reggerebbero bene il mercato anche senza evadere il fisco, ma che hanno trovato nell’evasione fiscale lo strumento per un arricchimento illecito e illegittimo e, grazie ai minori costi conseguenti, praticare una concorrenza vincente proprio nei confronti di quelle imprese che le tasse invece le pagano (per cui in Italia pagare le tasse significa anche pagare un caro prezzo in termini di mercato). Cosa succederà allora, quando queste imprese saranno costrette a pagare al fisco quanto ad esso dovuto, ossia quando si vedranno aumentare per pari importo i costi aziendali? Si rassegneranno a vedere ridotto il proprio conto “rendite e profitti”, oppure aumenteranno, a pareggio del nuovo onere fiscale, il prezzo dei propri prodotti? Quel tanto o quel poco che chi scrive conosce della cultura e della mentalità di quell’ambiente induce a pensare che la soluzione scelta sarà la seconda. Ciò significa che il conto finale di tutta l’operazione sarà pagato dall’ “utilizzatore finale”, ossia dai consumatori: il solito Pantalone che paga sempre per tutti.
Sono cose queste che la classe dirigente conosce benissimo, o almeno dovrebbe (non sono pochi quelli che invece parlano di crassa ignoranza e incapacità a tale proposito). Per cui preferisce ora ricorrere istericamente alla denuncia (ma dove sono stati sinora?) dell’evasione e degli evasori fiscali quale massima minaccia alla qualità della nostra vita e massima responsabile delle attuali e ormai annose difficoltà. Ma si tratta di pura demagogia per distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dalle responsabilità dirette che la casta (tutta) della politica ha nella terribile crisi del Paese. Va da sé che la lotta all’evasione fiscale andava portata avanti senza indulgenze da molti anni, anzi da sempre, per motivi, se non altro, morali e di equità. Ma loro se ne accorgono solo oggi. Come si fa a ritenerli in buona fede?