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Signori Azionisti,
c’è una voce in bilancio che ha dato corpo e sostanza a tutte le mie più cupe previsioni quando alla fine del 2007 fu reso noto l’accordo tra il Monte e il Banco Santander per l’acquisizione della Banca Antonveneta.
Mi riferisco alla voce Attività Immateriali dello Stato patrimoniale del progetto di Bilancio consolidato che è passata da 870 milioni del 2007 a 6.709 milioni del 2008 per l’appostazione di 5.910 milioni rappresentanti l’avviamento della Banca Antonveneta, ma che in realtà rappresentano solo quanto è stato pagato in più rispetto al valore reale risultante dai dati contabili rivisti.
Anche su questa revisione contabile ci sarebbe da ridire, nel senso che dovrebbe essere meglio spiegata, perché al 30.5.2008, ossia alla data di chiusura del contratto di compra-vendita, il netto dell’Antonveneta era calcolato (dati desunti dal Documento informativo a Bankit del 15.6.2008) in 2.845 milioni e l’avviamento in 7.292 milioni per un costo totale dell’acquisto di 10.137 milioni. Siccome nel consolidato attuale quell’avviamento è stato ridotto a 5.910 milioni, con una diminuzione di 1.382 milioni, devo dedurne che di pari importo sia stato incrementato il netto dell’Antonveneta (ossia + 48%), considerato che la somma delle due cifre deve sempre essere pari ai 10.137 milioni che poi è il prezzo finale pagato. Il 48% di rivalutazione contabile mi sembra sproporzionato, ma può darsi che abbia una sua giustificazione che però non sono stato capace di trovare nell’illustrazione .
Ma quell’avviamento, ancorché ridotto a 5.910 milioni dai 7.292 che erano, sarà anche un’attività immateriale, ma secondo me pesa come un macigno sull’intero bilancio e, quel che è peggio, sul futuro del Monte. E mi spiego.
Quando alla fine del 2007 la stampa riportò i termini dell’accordo tra il Santander e il Monte si parlò di 9 miliardi (poi diventati 10). Ma la stessa stampa riportò ripetutamente quanto segue:
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l’AMRO Bank aveva scoperto che l’acquisto dell’Antonveneta non era stato un affare (aveva già perso il 35% della clientela) per cui l’aveva venduta al Santander per 6.600 milioni.
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anche il Santander si era accorto subito che l’Antonveneta era un peso, per cui voleva liberarsene il prima possibile;
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neanche tre mesi dopo il Santander, scorporata dall’Antonveneta la partecipazione buona ossia l’Interbanca valutata 1.600 milioni, trova il compratore nel Monte.
Considerato che dopo lo scorporo dell’Interbanca il valore attribuito all’Antonveneta dal Santander e dalla AMRO si era ridotto da 6.600 milioni a 5.000, e che il Santander si vedeva costretto alla vendita, c’era da aspettarsi che il Monte offrisse non più di 3 miliardi per l’intero acquisto e che poi magari nella trattativa fosse costretto a rivedere al rialzo l’offerta, ma mai fino a superare i 5 miliardi che ormai, anche se solo virtualmente, l’Antonveneta valeva. Invece si accorda per 10 miliardi, il doppio di quanto il Santander l’aveva pagata 3 mesi prima, e più del doppio, forse il triplo del valore odierno se ci si basa sull’attuale valutazione di uno sportello bancario che, come al Monte si sa bene, è sotto i 4 milioni. Insomma oggi l’Antonveneta, a soli 12 mesi dall’acquisto vale meno della metà di quanto è stata pagata. E quell’avviamento Antonveneta di 5.910 milioni postato tra le attività del bilancio consolidato, è più o meno pari alla perdita subita. Un acquisto, quello dell’Antonveneta, dunque da considerarsi nel complesso scellerato e che fa letteralmente impallidire quello della Banca 121, che evidentemente ne è stata il banco di prova. Acquisto scellerato, dicevo, anche se il Monte avesse avuto i soldi per pagarlo, ma diventa scelleratissimo perché in cassa non c’è una lira.
Sul motivo per cui in cassa non c’è una lira, circostanza assolutamente nuova nell’intera lunghissima storia del Monte, ci sarebbe da scrivere un libro. E non c’è crisi economica generale che tenga, perché di crisi del genere e anche molto, ma molto peggiori (e lo sa bene chi conosce la storia di questa Città, del Granducato di Toscana e del nostro Stato), il Monte dal 1472 ne ha viste più di ogni altra banca al mondo, ma ci è arrivato sempre con le casse piene. Questo è il segreto del suo successo, crisi dopo crisi.
E a proposito di crisi consentitemi una digressione, che poi tanto tanto digressione non è. Nel 1996, dopo la privatizzazione, scrissi su una rivista che in tutte le grandi crisi del passato tutte le banche private, immerse come oggi nella finanza avventurosa, fallirono. Mentre le allora piccole banche pubbliche – Monte dei Paschi in testa – tenutesi sempre lontano da quelle avventure e quindi piene di liquidità come era loro costume, rimaste padrone del mercato fecero il primo grande balzo in avanti. Penso alla crisi devastante di fine ‘800, la prima dello Stato unitario nota soprattutto per lo scandalo della Banca Romana di Sconto, e penso alla seconda grande crisi degli anni ’30 del ‘900, quanto di nuovo le grandi banche private, e per lo stesso motivo, fallirono e le banche pubbliche, sempre in splendida salute, fecero il secondo grande balzo. Successe la stessa storia nella lunga, strisciante crisi del secondo dopoguerra che fu ugualmente devastante ancorché, grazie agli accordi di Bretton Woods, diluita in alcuni decenni. Così, crisi dopo crisi, alla fine degli anni ’80 dello scorso secolo il sistema bancario italiano si chiamava tale solo grazie alle ormai grandi, potenti e solidissime banche pubbliche. Ciò dette modo a aquile del pensiero come Amato, Dini, Ciampi e centinaia di altri del notabilato nazionale, di gridare allo scandalo senza domandarsene il perché (la risposta, come ho detto era semplice, ma al di sopra della loro capacità di comprensione: il sistema bancario italiano era in mano alle banche pubbliche perché in Italia le banche private hanno tutte la deplorevole abitudine di fallire). Così quei signori, con impagabile lungimiranza, erano corsi al riparo imponendo (i-m-p-o-n-e-n-d-o!) la privatizzazione di quelle virtuosissime banche. Per cui, in quello scritto, giunsi alla conclusione che la prossima grande crisi, che sapevo sarebbe prima o poi arrivata, l’economia italiana non avrebbe avuto il paracadute delle banche pubbliche. Ma mi sbagliavo. E’ vero che la crisi attuale ha messo in ginocchio tutte le banche private, anche quelle ex pubbliche, come era fin troppo facile prevedere, ma un piccolo paracadute si è aperto lo stesso: quello delle piccole e piccolissime banche cooperative e popolari rimaste al vecchio regime. Erano troppo poco importanti perché Amato e compagni se ne occupassero modificandone la struttura in senso capitalistico (mi sono sempre domandato perché, stranamente, i politici disdegnino sempre i piccoli affari quando ce n’è di grandi di cui occuparsi). Queste formichine, al contrario delle grandi cicale, proprio grazie a questa crisi hanno incrementi percentuali di basi patrimoniali e di utili a due cifre (anche sopra il 30%!) e vedrete che crisi dopo crisi, se gli Amato o i loro successori non le fermeranno prima, ripercorreranno la strada delle antiche banche pubbliche come ho detto sopra, diventando sempre più solide e potenti.
Ma torniamo a noi. Se al Monte quella tradizione delle casse sempre piene fosse stata mantenuta anche dopo la privatizzazione, ossia se ci si fosse comportati da formiche anziché da cicale, se si fosse conservata la cultura del “meglio essere che sembrare”, invece di adottare quella del “meglio sembrare che essere”, oggi, di fronte a una crisi che non si sapeva quando sarebbe arrivata ma si sapeva che sarebbe comunque arrivata, il Monte avrebbe potuto comprare ciò che voleva, scegliendo fior da fiore a prezzi di liquidazione: oggi sarebbe stata forse la maggiore e più solida banca d’Europa.
Oggi le casse sono vuote, e ciò nonostante la lunga serie di alienazioni patrimoniali (anche questa è una bella inversione di 180°: in tutta la sua vita e fino ad ora il Monte non aveva fatto che comprare). Qualcosa evidentemente non funziona più, o funziona in maniera preoccupante.
Si dice che gli errori del medico li ricopre la terra. Ma gli errori dell’imprenditore li copre la fusione. Con la fusione non sarà mai più contabilizzabile in futuro il valore dell’errore dell’affare Antonveneta. Ma a ricordarcelo ci saranno sempre quei 5.910 milioni appostati a Attività immateriali per l’avviamento dell’Antonveneta. Un valore inesistente perché l’avviamento è un artificio per dare visibilità contabile a ciò che non è contabilizzabile: il marchio, l’ottimo andamento, la fama, il prestigio, il favore del pubblico, la qualità della dirigenza, ecc. Ma l’Antonveneta perde clienti (-35% nel 2007), perde raccolta (-3,2% nel 2007), perde il netto consolidato (-4,1% nel 2007) e perde nel conto economico. Ma quale avviamento, signori Azionisti? Lo stesso Monte, nel Documento informativo alla Bankit del 15.6.2008, dice: “Banca Antonveneta ha registrato al 31 dicembre 2007 a livello consolidato una perdita pari a Euro 5,9 milioni. Il Piano Industriale di BMPS contempla una ristrutturazione volta a riequilibrare la gestione operativa di Banca Antonveneta che dovrebbe portare al raggiungimento del break even entro l’esercizio in corso. Tuttavia, anche a seguito dell’implementazione di detto piano, Banca Antonveneta potrebbe continuare a non generare risultati economici positivi, con possibili effetti negativi sull’attività e sulla situazione economica, patrimoniale e finanziaria dell’Emittente e del Gruppo”. No, non c’è spazio neanche per un euro di avviamento: quei quasi 6 miliardi sono la contabilizzazione della perdita nell’acquisto di Antonveneta.
Io temo che per questo fatto, ora sul futuro del Monte ci siano ipoteche pesantissime. Ma come se nulla fosse, il Consiglio di Amministrazione viene a riproporci la propria riconferma in blocco. Cose così erano possibili solo nei banchi meridionali ai tempi della prima repubblica democristiana. Mai avrei creduto che un giorno quei tempi li avrei rivissuti a Siena.
Signor Presidente, spero (e mi creda: sono assolutamente sincero) che nella Sua replica lei riesca a confutare queste mie valutazioni, riesca a dimostrare che mi sono sbagliato.
Mauro Aurigi