Riflessioni di un ottuagenario del ceto medio cittadino
di Mauro Aurigi
SIENA. Premetto subito che non sono uno studioso della materia, ma vengo da famiglia operaia socialista (quindi perseguitata dal fascismo) e anticlericale ancorché cattolica, profondamente segnata da un pregresso evento che fu per l’epoca abbastanza grave: il mio bisnonno, di facoltosa famiglia notarile senese, che si spretò nella Toscana ottocentesca ancora pigramente lorenese. Per questo fu diseredato e cacciato di casa. Grazie all’arrivo, qualche anno dopo, dei Piemontesi anticlericali poté sposarsi ed avere dei figli (altrimenti io non avrei potuto essere qui a cianciare di queste cose).
Per questo mi sento autorizzato a parlare dell’avventura, ancora non del tutto tramontata, del social-comunismo, un fenomeno che oggi per lo più ci ostiniamo a valutare con gli occhi del miope anziché con quelli del presbite. Sono infatti convinto che senza di essa il mondo in generale e l’Occidente in particolare, sarebbero peggiori, molto peggiori di quello che sono diventati oggi.
Tanto per cominciare va detto che il social-comunismo di Marx e Engels (un filosofo e un grande industriale) e magari anche di Gramsci, era cosa assai diversa, anzi, assolutamente opposta al bolscevismo sovietico di Lenin e Stalin. Lo stesso Marx si era a suo tempo dichiarato contrario a che la sua “dottrina” trovasse campo nella Russia degli Zar, che era il paese europeo più grande, più povero, più arretrato, e con tremende disparità socio-economiche di gran lunga più accentuate che in ogni altra nazione. No, secondo Marx e Engels il social-comunismo poteva nascere e crescere solo nelle nazioni occidentali, mediamente più evolute e già in grande sviluppo sotto la spinta della rivoluzione industriale iniziata nella seconda metà del Settecento in Inghilterra. Era questa rivoluzione, sostenevano i due, responsabile anche del contemporaneo formarsi della “coscienza di classe” tra gli operai. Coscienza di classe che per la verità non era una novità assoluta se si pensa ai moti dei Ciompi della seconda metà del Trecento a Firenze (e prima ancora, ancorché in tono minore a Siena).
Nella sostanza Marx prevedeva che con la rivoluzione industriale la classe operaia, da sempre minoritaria e da sempre esclusa dalla partecipazione ai (o dalla direzione dei) governi, sarebbe diventata numericamente maggioranza assoluta (80%?) e grazie a ciò autorizzata a gestire il potere, fino al punto di abolire le classi e abolire anche lo Stato.
Quindi, se la previsione fosse diventata realtà, la classe operaia avrebbe avuto il diritto democratico a un ruolo egemone nella politica e nella cultura (inter) nazionale. Ma sbagliò di grosso. La classe operaia non è mai diventata maggioranza, battuta nel frattempo dal ceto medio (oggi in profonda crisi anch’esso).
L’errore miope che facciamo oggi è quello di non capire il ruolo determinante che quella corrente di pensiero, correntemente definita marxista, ha avuto nell’evoluzione dell’Occidente che oggi conosciamo (e ammiriamo!): senza Occidente tutto il mondo sarebbe solo Africa, Asia e Sud America. E questo errore miope non è il solo nella storia, ma fu comune nei confronti di tutte le rivoluzioni socio-culturali responsabili, nel tempo, del formarsi del cosiddetto pensiero politico occidentale. Successe all’Umanesimo nel XIII-XIV secolo, alla Riforma protestante nel XVI-XVII e all’Illuminismo nel XVIII secolo, rivoluzioni culturali tutte ovviamente avversate dai ceti dominanti che oggi definiremmo conservatori o, meglio, reazionari.
La stessa cosa successe e continua a succedere ora nei confronti del socialismo. E forse oggi sbagliamo più di allora, visto che si sostiene essere stato il bolscevismo sovietico (ma anche quelli attuali di Cina, Cuba, Corea del nord ecc.) come estremismo di sinistra. Invece al mondo non c’era niente di più simile al nazi-fascismo – ossia alla destra reazionaria di Hitler e Mussolini – della Russia sovietica di Lenin e Stalin (o la Cina, Corea del Nord, Cuba ecc. di oggi).
Così come in Italia bolliamo ancora di estremismo di sinistra i movimenti sedicenti “rivoluzionari” (vedi le Brigate Rosse), mentre invece niente è più fascista del terrorismo di una trascurabilissima minoranza che vuole imporre colla violenza il proprio credo politico a tutti gli altri.
Fatto sta che se non fu direttamente il social-comunismo a democratizzare la nostra società occidentale, fu certamente il timore che esso generò nelle classi dirigenti, allora vera e propria casta del potere.
La sintesi, pare di dover concludere, si raggiunse colla social-democrazia, responsabile della grande evoluzione sociale, civile, culturale ed economica dei paesi che l’adottarono: quelli del nord Europa, universalmente riconosciuti, sotto ogni aspetto, come civilissimi e i più evoluti del pianeta.