di Giulia Tacchetti
SIENA. “The pride” un testo di Alexi Kaye Campbell è stato messo in scena per la prima volta nel 2008 a Londra e nel 2010 a New York . Un testo dichiaratamente lesbo-gay, che parla con chiarezza e semplicità in modo nuovo, non più adottando il punto di vista degli etero come nel film “Philadelphia” (quello dell’avvocato di colore), ma il punto di vista degli omosessuali per analizzare il mondo in cui viviamo.
Una scelta coraggiosa quella di Zingaretti di portarlo in scena come regista ed interprete, con la produzione di Zocotoco, senz’altro per mettersi in gioco, abbandonando momentaneamente le tecniche televisive e cinematografiche, che pure gli hanno dato la fama. Solo un attore “ veterano” può affrontare queste tentazioni e risolvere efficacemente problemi non solo interpretativi, ma anche tecnici come il prima ed il dopo, gli interni e gli esterni. La traduzione attenta di Monica Capuani (alunna di Nadia Fusini) lo fa agire su un testo credibile da un punto di vista linguistico, introducendo il parlato nella storia contemporanea e superando il problema dall’Inglese all’Italiano tra il “tu” e il “lei”. I dialoghi risultano brillanti e le parole profonde producono riflessioni secondo la diversità di chi li riceve: “vite insulse…no, inesplorate”; “investire una dose di passione in quello che fate per vivere”; “la vita diventa una festa mascherata…Quando si vive in un mondo di bugie è minata la nostra capacità di discernimento”.
Due storie si alternano sul palcoscenico: la prima ambientata a Londra nel 1958. Sylvia, ex attrice reduce da un esaurimento nervoso, presenta al marito (Philip) Oliver, scrittore per ragazzi, con cui collabora. La seconda è ambientata sempre a Londra, cambia l’anno: 2015. Oliver, un giornalista gay, ha appena rotto con Philip, un fotoreporter. Sylvia, amica di entrambi, cerca di ricucire la loro relazione. Due storie che all’inizio sembrano avere in comune solo il nome dei personaggi, poi, a mano a mano che si svolgono, scoprono le loro affinità. Affrontano tematiche simili e l’una rimanda all’altra con il tema dell’amore, della fedeltà, ma soprattutto dell’identità, tanto che nella seconda storia Oliver, dopo aver tradito ripetutamente Philip, urla a Sylvia “Io non so più chi sono”. L’unica differenza è temporale: nella Londra del ’58 Philip, sposato con Sylvia, rifiuta la sua omosessualità perché è vergognosa, quindi da nascondere. L’incontro con Oliver, che gli dichiara il suo amore, lo trasformerà, ma i tempi non sono ancora maturi. Philip rinuncia alla sua vera identità accettando di farsi curare “dalla malattia” in una clinica, come la moglie ha rinunciato alla sua vera vocazione, quella di fare l’attrice.
Nella Londra del 2015 (nel testo ’08) Philip ed Oliver sono gay dichiarati e dopo la rottura della loro relazione per i ripetuti tradimenti del secondo, torneranno a vivere insieme. I tempi sono cambiati. Ma il testo non parla solo di omosessualità agli omosessuali, parla di amore tout- court. E’ un messaggio forte e potente. E’ un testo che secondo noi nelle intenzioni del regista, e questo è veramente il pregio, va oltre l’omosessualità, parla soprattutto alla nostra identità. E’ come se ad ognuno di noi chiedesse: “Tu a che punto sei della tua vita? Hai fatto quello che volevi o hai rinunciato e sei alla deriva?” Le interpretazioni nel gioco dei ruoli sono ottime: Zingaretti è nei due Philip molto credibile e disinvolto, così Maurizio Lombardi in Oliver (secondo il regista il personaggio più bello), Valeria Milillo in Sylvia e Alex Cendron in più ruoli. Valide le scene di Andrè Benaim, le luci di Pasquale Mari; veramente godibili le musiche di Arturo Annechino.